Futuro del food? Legislazione e approccio “glocale”
Anche il food, nelle varie declinazioni della safety, quality e made in Italy, non può sottrarsi alla dialettica tra globale e locale, affrontata su larga scala da Bauman, e che a nostro parere si adatta perfettamente all’alimentazione.
Un discorso sul cibo, oggi più che mai, passa per una visione d’insieme, che non trascuri le varie anime del food, con le discipline normative di riferimento: i prodotti comuni, quelli DO e IG, i nutrizionali e quelli nutraceutici. Tanto per citare le categorie più diffuse (e ambìte).
Ragionare in senso “glocale” significa accettare senza pregiudizi la compresenza sul mercato di alimenti diversi, valutati tuttavia con la medesima “dignità” mercantile. E significa pure considerare l’antico e il moderno alimentare alla luce del food law, che costituisce il collante indispensabile per la sicurezza del consumatore. Tra altri provvedimenti, per tutti gli alimenti, resta infatti inderogabile l’applicazione del Reg. Ce n. 178/02 (su rischio, pericolo, tracciabilità) e del Reg. Ue n. 1169/11 (sulla corretta informazione del consumatore).
In tale prospettiva, riflettere sul “glocale” non sembra più una sfida, ma una vera e propria esigenza paritaria per gli attori del sistema-cibo (operatori, consumatori e “controllori”). Non dimentichiamo, infatti, che il mercato degli alimenti è profondamente mutato, perché votato sempre più all’e-commerce e a nuove forme di comunicazione via web, ciò costituendo una preziosa “opportunità” soprattutto per gli operatori medi e “piccoli”.
Per questo motivo, più che perseverare nella sterile contrapposizione tra prodotti “di nicchia” e commodities (battaglia “tipicamente” nostrana), potrebbe essere utile trovare nella legislazione alimentare istituti e strumenti che consentano pari potenzialità mercantili e, parimenti, occasioni di sviluppo anche per le produzioni locali.
Un esempio “glocale” nella normativa? L’etichettatura “facoltativa” di cui al Reg. Ue n. 1169/11. Il considerando n. 30, infatti, stabilisce che in alcuni casi gli operatori del settore alimentare potrebbero scegliere di indicare su base volontaria l’origine di un alimento per richiamare l’attenzione dei consumatori sulle qualità del loro prodotto.
Perché, allora, non “approfittare” di una tale previsione?
Basti solo che le informazioni sugli alimenti fornite discrezionalmente sulle caratteristiche degli alimenti soddisfino i seguenti requisiti: non inducano in errore il consumatore; non siano ambigue né confuse e, se del caso, siano basate sui dati scientifici pertinenti (art. 36, Reg. Ue n. 1169/11).
E’ questo un esempio in cui la legislazione offre allo stesso tempo opportunità e precetti. Si tratta, in sostanza, di veri e propri “vantaggi” informativi di cui possono approfittare anche i “piccoli” e medi operatori, ove propongano sul mercato alimenti “di qualità” o di origine territoriale definita (anche non DO o IG).
In tale norma, a nostro avviso, può cogliersi quell’approccio “glocale” utile anche a chiarire la delicata faccenda del made in Italy. Tale ambìta dicitura è spesso abusata nel linguaggio comune, in presenza di una regolamentazione confusa, allo stato frammista tra regole del codice doganale, legislazione alimentare europea e normativa interna (l. 350/2003).
In assenza di una condivisa disciplina, peraltro, è stata affidato alla giurisprudenza un ruolo di “supplenza”, spesso difficile, ma oggi utile a dirimere le questioni più complesse sul “made in Italy”. Si veda, ad esempio, quanto affermato dalla nostra Cassazione penale (sent. n. 46886/07): in alcuni casi l’elemento preponderante, che qualifica il prodotto come “italiano” deriverà dalla sua progettazione o dal design, in altri dalla brevettazione della scoperta che costituisce “l’anima” del prodotto, e cioè il suo elemento qualificante, in altri dalla qualità della materia prima impiegata, in altri ancora dalla qualità e specializzazione della lavorazione.
La preziosa sintesi operata dalla Cassazione conferma l’impossibilità di relegare il made in Italy in una semplice definizione; pur tuttavia, in una visione “glocale”, prodotto in Italia si eleva a concetto-contenitore, destinato a contenere le varie “anime” dell’italianità (quelle DO e IG, per eccellenza, ma non solo), trattenendosi in tale contesto di “italianità” anche le produzioni che dal “basso locale” ambiscono per qualità e pregi all’alto globale.
In tal senso, made in Italy potrebbe diventare davvero un “indice di riconoscimento” del prodotto italiano nel mondo, ma solo nel rispetto delle norme doganali e - soprattutto - del food law (es. art. 26 Reg. 1169/11, Reg. Ue n. 1151/12 sui regimi di qualità). Questo, tuttavia, in attesa di una definitiva sistemazione normativa del problema (complesso) dell’indicazione dell’origine in etichetta.
Si ringrazia Francesco Aversano www.avvocatoaversano.it
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