Attilio Scienza personaggio dell'anno Assoenologi
I dubbi non sono stati pochi. E così le incertezze, vissute con gli amici del CdA. Perché il progetto di dar vita a un Premio Assoenologi da attribuire ogni anno a chi abbia operato al top per i migliori destini del mondo del vino, offriva il fianco a parecchie riserve. A cominciare da quelle più largamente diffuse, del tipo “L’Italia è il Paese dei premi”, a quelle che investivano l’area professionale entro la quale cercare il candidato di turno.
Un riconoscimento a un personaggio straordinario
Una scelta tutt’altro che facile. E per varie ragioni. Anzitutto quale priorità dare ai vari settori professionali, visto che il premio ha l’ambizione di conferire un riconoscimento anche a chi non ha frequentazione con vigneti e cantine? Insomma, privilegiare il bacino più proprio dell’Assoenologi, o allungare lo sguardo oltre i nostri confini per aprirci al mondo della letteratura, del giornalismo, della comunicazione, della ricerca scientifica, purché strettamente connessi al vino? Confesso che questo è stato il punto sul quale ci siamo più a lungo confrontati.
Ma limitare l’area di scelta avrebbe fatalmente portato a un premio circoscritto al comparto degli enologi, e quindi a una sorta di occasione per individuare ed esaltare i migliori fra noi. Un premio per soli enologi, assegnato dall’Assoenologi! Una sorta di partita giocata in casa, con tutti i limiti che questo comporta, anche in caso di vittoria.
Alla fine ha prevalso il buon senso. Ovvero, quello spirito consortile per un’apertura sempre più ampia del nostro organismo, che invece un premio strettamente associativo avrebbe finito per sminuire. Le sorti di un premio, che si affaccia su un panorama di riconoscimenti tra i più fitti, deve bene accreditarsi fin dalla sua prima edizione. Per cui la ristretta rosa dei nomi proposti rivela subito un problema. Mondo universitario? O conquiste realizzate sul campo, al di là di ogni titolo accademico? E ancora: la generazione in quiescenza, per così dire, o quella ancora in servizio? Insomma, un ventaglio d’interrogativi, con poche risposte valide.
Poi, d’improvviso, quasi una folgorazione, dalla bocca di tutti noi del CdA esce un nome: ATTILIO SCIENZA.
Scienza è un uomo e una storia, che hanno segnato le conquiste della nostra Viticoltura. Un campione che non lascia spazio a dubbi di sorta. Un maestro che all’indiscusso valore morale e all’appassionata ricerca ha dedicato un’intera vita. Basti pensare al magistero di quella dottrina, alla quale ha formato generazioni di enologi.
Ma non è tutto. Il CdA non ha mancato di sottolineare quanto la candidatura fosse un eccezionale apripista al futuro del Premio. Perché il nome di Attilio Scienza costituisce un riferimento-principe anche per quei settori le cui radici non affondano nei vigneti e nelle cantine.
Intanto, prepariamoci a celebrare il riconoscimento e il suo straordinario destinatario. Al quale va tutta la stima e ammirazione mia e di tutto il CdA.
Auguri di cuore, Attilio, da chi ti considera un sicuro modello!
L'intervista ad Attilio Scienza
D: "Caro Attilio, mi puoi tracciare molto brevemente, in una sorta di curriculum vitae, le fasi cruciali della tua carriera professionale?"
R: "Dopo il diploma di Enotecnico conseguito nel 1965 a S. Michele all’Adige, mi sono laureato alla Cattolica di Piacenza in Scienze Agrarie nel 1969, dove sono rimasto come assistente volontario fino al 1974, sotto la guida del prof. Mario Fregoni. Durante quegli anni ho trascorso alcuni periodi di studio al Centro Federale di Ricerche per la genetica della vite di Geilweilerhof (Germania) diretto dal prof. Gerhardt Alleweldt, che mi ha indirizzato verso il miglioramento genetico della vite.
Nel 1975 sono stato chiamato dall’Università degli Studi di Milano a ricoprire il posto di assistente ordinario presso l’Istituto di Coltivazioni arboree, diretto dal prof. Filippo Lalatta. Dal 1987, come professore associato, ho tenuto il corso di Fitormoni e fitoregolatori in arboricoltura e nel 1992 sono stato chiamato a ricoprire la Cattedra di professore ordinario di Viticoltura al Corso di laurea di Viticoltura ed Enologia dell’Università degli Studi di Milano.
Dall’anno accademico 2012-2013 sono professore incaricato del corso di Viticoltura di territorio alla Laurea magistrale in Tecnica viticola ed enologica con sede ad Asti-Torino, dal 2015 diventato di Viticoltura sostenibile. Dal 1985 al 1992 sono stato direttore generale dell’Istituto Agrario di S. Michele.
Dal 2015 sono fuori ruolo per limiti di età ma mantengo, come professore a contratto, i due insegnamenti a Milano e ad Asti-Torino".
D: "Ci sono stati, nella tua vita di docente e ricercatore, dei momenti cruciali, come direbbero gli anglosassoni, delle milestone, delle pietre miliari, che hanno determinato le scelte più significative?"
R: "Vorrei iniziare il racconto del mio percorso scientifico e accademico, anche per sfuggire alla inevitabile retorica dei ricordi e della nostalgia, non dagli inizi, come è consuetudine, ma dalla contemporaneità, quasi per tracciare un bilancio della mia vita, a ritroso. Infatti, a distanza di tanti anni, emergono ora nella mia memoria, in modo più chiaro, alcuni fatti e il ricordo di alcune persone, che avevo trascurato negli anni della gioventù.
Prima di tutti i miei genitori, che hanno colto in me, molto precocemente, un tratto fondamentale del mio carattere, la curiosità per i fenomeni naturali, facendomi frequentare la scuola di S. Michele. Poi i miei docenti.
Una frase di Bernardo di Chartres, filosofo francese nel XII secolo, recita: “Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti”. Ciò rende esplicita questa mia affermazione a significare come la cultura umana cresca grazie alle intuizioni e alle scoperte di ogni epoca. In essa esprimo i sentimenti di gratitudine, nei confronti dei miei maestri, nel senso autentico della parola, iniziando proprio da quelli della scuola primaria – o elementare come si chiamava una volta -, che mi hanno, come diceva S. Agostino, aiutato a capire me stesso.
Non posso dimenticare anche le lezioni di saggezza e di pratica viticola dei tanti viticoltori che ho incontrato lungo la mia vita e che hanno avuto la pazienza di ascoltarmi e di correggere i miei errori".
D: "Ciascuno di noi ha sviluppato delle preferenze, quasi delle affinità, nei confronti delle scelte che ha fatto nel corso delle sua vita e che rappresentano i valori di una mission. Mi riferisco al mondo della vite e del vino. Cosa ti attrae particolarmente di questo mondo?"
R: "Come ho precisato prima, alla ricerca di una sintesi, che può essere fatta solo dopo un cammino di conoscenza, molte delle questioni che sono state in questi anni poste ai ricercatori possono trovare una riposta solo se vengono affrontate con un approccio interdisciplinare.
Mi spiego con un esempio. L’origine dei vitigni è stata nel passato cercata nelle fonti mitologiche e letterarie e, in tempi più recenti, negli strumenti dell’ampelografia classica con risultati molto parziali.
La biologia molecolare ha rotto questo velo di ignoranza aprendo prospettive insperate sulle origini della nostra viticoltura. I progressi futuri non saranno però determinati da nuove tecniche analitiche ma dagli apporti di quelle che sono chiamate le discipline deboli e in particolare l’antropologia, che dovrà integrarsi con i risultati analitici".
D: "Quello della sintesi, che appare spesso inconciliabile, tra la cultura umanistica e quella scientifica, è un tema di grande attualità anche per il mondo della vitienologia, per le implicazioni legate al cambio climatico e alla sostenibilità ambientale delle attività connesse alla produzione del vino. Diventa a questo proposito fondamentale il ruolo del consumatore nelle scelte del produttore. Quali sono le prospettive di trovare una soluzione a questi atteggiamenti spesso divergenti?"
R: "Più la scienza penetra nella nostra vita e meno accettate sono le scoperte degli scienziati soprattutto se queste intervengono nella produzione degli alimenti. L’aspetto più impressionante è l’attenzione ricorrente e ossessiva del rapporto che l’uomo dovrebbe stabilire con la natura.
Come interviene la cultura umanistica? Nel mondo classico le posizioni sul concetto di natura erano molto differenti. La maieutica socratica affermava che tutto quello che serve all’uomo è offerto dalla natura, spontaneamente, perché tutto esiste in natura. La techne, la perizia, il saper fare era infatti una prerogativa degli dei.
Si opponeva a questa posizione Platone che attraverso la sua definizione di verità (eletheia) individua l’uomo demiurgo che ha il dovere di assecondare la natura ai bisogni dell’uomo attraverso la techne, sottraendola agli dei come ha fatto Prometeo.
Fuori dalla metafora, le posizioni tra coloro che vedono nell’ambiente, energie e forze captabili dal corpo e dalla mente e una sorta di antidoto alle paure che attraversano il nostro tempo e quelli che confidano invece nei progressi della scienza, non si sono - dopo duemilacinquecento anni - ancora conciliate. Non sono estranei i mezzi di comunicazione, che spesso disinformano più che informare. La scienza e il pensiero scientifico non hanno mai trovato in Italia un terreno favorevole. I non-scienziati hanno una radicata impressione che gli scienziati siano animati da un ottimismo superficiale e non abbiano coscienza della condizione dell’uomo.
D’altra parte, gli scienziati credono che i letterati siano totalmente privi di preveggenza e nutrano un particolare disinteresse per gli uomini loro fratelli e si preoccupino di restringere tanto l’arte quanto il pensiero al momento esistenziale.
Agli inizi del ‘900 Benedetto Croce affermava che “le scienze naturali non erano altro che edifizi di pseudoconcetti”e per Giovanni Gentile la scienza era “senz’anima”. Purtroppo la retorica del vino ha con la sua sacralità ha fatto perdere alla viticoltura il contatto con la realtà e con i problemi della sua produzione (con il 6% della superficie a vigneto in Europa, si impiegano il 65% di presidi chimici). Questo penso sarà nei prossimi anni il tema fondamentale su cui investire nella formazione dei giovani".
D: "Quali saranno in base alla tua esperienza gli sviluppi della viticoltura del futuro. Come pensi che si evolveranno le cosiddette “viticolture alternative”, quella biologica in particolare? Siamo lontani dalla vite ideale preconizzata dai ricercatori di fine 800? Che ruolo potrà avere la genetica tradizionale e innovativa a questo proposito?"
R: "La genetica, tanto vituperata ai giorni nostri da quelli che la temono perché non la conoscono, è la vera risposta alla domanda di sostenibilità ambientale della viticoltura, la quale non può rinunciare a combattere i parassiti, né tantomeno affidarsi ai rimedi offerti dall’esoterismo.
Qualcuno potrebbe essere tentato dal pensiero che i risultati ottenuti della creazione dei nuovi vitigni resistenti, possano rappresentare un ostacolo alla diffusione della viticoltura biologica. È vero esattamente il contrario. In quale modo? La viticoltura biologica sta rapidamente evolvendo da alternativa alla difesa con la chimica di sintesi a sistema produttivo, che tiene conto della nuova percezione che il consumatore ha della qualità del vino legata sempre più all’ambiente sociale di produzione e quindi verso un’alleanza con l’ambiente, bene comune.
I vitigni resistenti rappresentano allora una tappa obbligata verso questa nuova concezione della sostenibilità, anche perché non esistono alternative al rame e il rame è il veleno più potente per la vita del suolo e delle acque. Ma è necessario un prerequisito affinché il miglioramento genetico per le resistenze possa avere una prospettiva di successo: l’intenzionalità antropologica alla condivisione del progetto.
Cosa significa? Che è necessario avere coraggio per affrontare tutti assieme, ricercatori e produttori, i rischi e le paure che hanno in questi anni impedito l’innovazione genetica. Diceva Kant: “sapere aude”, abbi il coraggio di sapere. Il problema maggiore è rappresentato dal fatto che la scienza venga considerata in modo negativo e questo rende assai difficile spiegarne il valore. Questo è un problema antico.
Lamarck disse, a proposito della difficoltà che incontrava a far capire le sue idee: “Non è sufficiente scoprire e dimostrare una verità utile … ma è necessario anche essere in grado di propagarla e di farla conoscere.” Il motto per la vite ideale, quella che non ha bisogno della chimica, potrebbe essere l’espressione, che Goethe morente ripeteva e che fa pronunciare dal suo Faust : Mehr licht , più luce, dove la luce portata dalle scoperte della genetica, dovrebbe illuminare la nostra viticoltura dei prossimi anni".
D: "Il mercato del vino manifesta oggi due tendenze quasi contrapposte: da un lato la necessità di semplificare e innovare i messaggi della comunicazione e dall’altro di soddisfare una irriducibile richiesta di novità. Spesso si usano termini per definire vini che non hanno un preciso riscontro nelle modalità con le quali vengono prodotti. Tra questi l’attributo “naturale”. Qual è secondo te il giusto significato da attribuire alla parola “naturale”, riferita al vino?"
R: "Ricordo una felice affermazione di Angelo Gaja in un convegno tenutosi all’ Expo 2015, che dichiarava che la dicitura “vino naturale” ha un grande successo comunicativo sul consumatore. In quella stessa occasione Stevie Kim tentò, inutilmente, di dare una definizione univoca di vino naturale con la collaborazione dei presenti, partendo dalla domanda: cosa vuol dire vino naturale? C’è un vino innaturale?
Come è noto l’indicazione di vino naturale sulle etichette è stata proibita dalla Ue. Infatti, naturale è ciò che si ottiene dalla natura senza l’intervento dell’uomo: naturali sono le more raccolte sul ciglio delle strade di campagna o le fragoline dei boschi. Per quanto riguarda il vino, naturale è quello che viene prodotto dalle viti selvatiche spontanee delle lambruscaie maremmane o sarde. Le cultivar delle specie frutticole o orticole (cultivated variety), sono esclusivamente l’espressione della selezione genetica che l’uomo ha condotto fin dai tempi del Neolitico. Esse hanno perso il carattere di naturale e da sole, senza la tutela dell’uomo non potrebbero più sopravvivere.
Un vitigno coltivato non è quindi naturale, come non lo è il vino che si ottiene. Il vino è un’invenzione dell’uomo, non esiste in natura, è la scienza che lo ha creato ed è alla scienza che dobbiamo guardare, perché senza di essa saremmo costretti a bere solo dell’aceto. Con buona pace di quelli che vogliono il “vino naturale”. Cosa significa allora vino naturale? Pur partendo da basi culturali fragili e approssimative, esso si identifica in un panteismo che vede nell’ambiente, energie e forze captabili dal corpo e dalla mente una sorta di antidoto alle paure che attraversano il nostro tempo, da quelle delle malattie e dei rischi di una alimentazione “artificiale”, fino agli effetti degli inquinamenti di varia natura. Ciò autorizza la proliferazione e la legittimazione delle differenze: fare un vino naturale vuol dire essere “diversi”".
D: "Il consumatore come categoria sociale non esiste, esistono i consumatori, che si segmentano in misura crescente man mano che il vino conquista nuovi mercati, soprattutto quelli orientali, e che incontra le giovani generazioni, i veri motori dell’innovazione di prodotto. Quali sono le strategie che il mondo della produzione intende realizzare per venire incontro a queste ineludibili esigenze?"
R: "Il paradigma interpretativo che ha animato nei secoli il progresso viticolo è stata l’innovazione portata dal miglioramento genetico realizzato all’interno dei vitigni, per corrispondere alle mutevoli esigenze del consumatore.
Anche la zonazione viticola può essere considerata a ragione come un’innovazione di prodotto e di processo con la possibilità di incidere, non solo sulla qualità intrinseca dei vini, ma anche sulla loro comunicazione, per trasferirla al consumatore sempre più disposto a bere, più con la mente che non con i sensi. Attualmente con lo sviluppo delle piattaforme digitali, reso possibile dalla cosiddetta space economy, è fattibile una migliore valorizzazione delle risorse naturali di un territorio vitato su scala più ridotta quale quella aziendale, anche nell’ottica delle applicazioni della viticoltura di precisone. È però necessario dare ai tecnici del vino, nuove conoscenze digitali, perché la sostenibilità ambientale sarà sempre più legata all’innovazione scientifica".
D: "Se dovessi riassumere e legare il tuo passato di docente e ricercatore a un futuro anche utopico, quali sono le cinque parole sulle quali costruiresti una sorta di testamento spirituale?"
R: "Per far sì che il “messaggio della bottiglia” valga la pena di essere affidato alle acque, si devono realizzare due prerequisiti importanti: che esista un messaggio dove sia possibile scrivere i valori da difendere e che una volta tolto dalla bottiglia, dall’ignoto scopritore, venga letto e adottato. Il messaggio è rappresentato dall’invito alla scoperta dei luoghi dove ancora aleggia il senso della storia, per mantenere vivo quel rapporto che esiste tra universalità del mito e la tradizione, i cui segni tangibili sono veicolati dai vitigni antichi e dai contadini che li fanno rivivere nei loro vini.
L’Italia racconta la storia delle sue radici attraverso il vino. Quei luoghi, come scriveva Aristotele nel secondo libro della Retorica, sono dentro di noi.
Voglio indicare queste parole citando i classici. Non ho avuto una formazione classica, me ne dolgo, ma ora solo nei classici trovo le risposte alle tante domande si affollano dentro di me. La prima parola è Passione. Come per Alceo, “il vino è specchio dell’uomo” e “la vite è la sua passione”. Senza la passione non si raggiunge nessun traguardo. La seconda è Curiosità. Come diceva Platone ad Agatone nel Simposio, nella educazione di un giovane il risultato più grande è quello di stimolarne la curiosità.
La terza è Identità. L’identità di un vino è più il prodotto della storia che non della geografia o almeno il prodotto di una geografia definita attraverso la storia, dove l’ambiente sociale ha determinato i suoi contorni, i veri contenuti del terroir. La quarta è Verità, nel significato greco, quello espresso da Platone, di elètheia, che rende visibile ciò che è invisibile, necessaria per completare il disegno della Creazione attraverso la scienza. Strumento essenziale per dispiegare la qualità di un vino che già è presente in modo latente in un
territorio ma che l’enologo può rendere manifesto. La quinta è Bellezza. La scienza procede con un duro lavoro di teoria e di pratica ma la cultura è ancora dei miti. La bellezza, valore fondante, può diventare l’elemento della fusione tra ambiti disciplinari cosi diversi.
Marc Bloch, autorevole storico contemporaneo, illustrava il ruolo fondamentale, nella vita di oggi, dell’aderenza ai principi dell’identità, con l’esempio della ghianda e della quercia. Senza ghianda la quercia non esisterebbe, ma tutte le ghiande non diventano querce perché solo in quel luogo e in quel clima la ghianda può esprimere le sue potenzialità di crescita. Per la viticoltura italiana, la ghianda è l’innovazione tecnologica; il luogo e il clima sono l’intelligenza dei tecnici e del saper fare dei viticoltori, che in tutti questi anni hanno costruito assieme. La quercia in queste condizioni non potrà che essere maestosa e secolare.
Ma qualcosa ancora manca e questo non è da poco. Manca la consapevolezza che il vino è per i viticoltori italiani “un bene comune” come è l’acqua, la scuola, l’ambiente e che la viticoltura deve essere sostenuta da un patto sociale. Questo significa che non si può vivere bene se non ci sentiamo innanzitutto parte di un destino comune".
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