Umiltà e santità nel vino
Da l'Enologo - Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
“Nunc est bibendum. Così raccomandava un poeta antico ai suoi contemporanei e così si fa tanto spesso, alzando un bicchiere di vino. Rispetto all’acqua, parte integrante e fondamentale di tutte le forme di vita, il vino è solo un prodotto occasionale e transeunte della terra e dell’uomo, che dall’humus proviene e ad esso ritorna. Però anche il vino, come l’uomo, oltre a essere umile, può aiutare a guardare in alto e, alla fine, essere santo.”
Vino: unico e sempre diverso
L’acqua, nella sua semplicità, è sempre identica a sé stessa. Il vino, nella sua complessità, è sempre unico e diverso, nella bottiglia come nel bicchiere versato.
Esso è irripetibile e sfugge tra le labbra di chi lo sorseggia, come lo è la vita che scorre inarrestabile nelle vene. In questo passare che non si ferma, c’è un germe di eternità.
Se bevuto in eccesso al posto dell’acqua, il vino porta alla rovina dell’uomo. Tuttavia, è convertendo l’acqua in vino che Gesù ha compiuto il primo miracolo, su richiesta della madre per far piacere a sposi e amici. Il vino gustato in quel banchetto, come in tanti altri banchetti nuziali, non annientava l’individualità dei partecipanti ma la elevava, di tutti quanti insieme riuniti attorno alla promessa di nuova vita che nasce. Quel vino portava festa ed allegria ed era, in qualche modo, seme di gioia e speranza.
Ma innanzitutto, che cosa è il vino, di cosa è fatto? Come tutti sanno, oltre all’acqua, il secondo componente principale del vino è l’etanolo, dalla cui concentrazione dine dipende la sua maggiore o minore “potenza”. La forza che l’etanolo sprigiona si può spiegare cominciando dalla sua struttura.
Esso è una piccola molecola come l’acqua, che con l’acqua si mescola senza problemi, ma è capace di andare oltre. Oltre agli atomi di idrogeno e ossigeno di cui è fatta l’acqua, l’etanolo contiene anche due atomi di carbonio. Al contrario degli atomi di idrogeno e ossigeno, che si attraggono l’un l’altro ma respingono atomi identici a loro, quelli di carbonio amano appaiarsi e condividere gli elettroni che girano attorno gli uni agli altri, senza trattenerli o respingerli da sé.
È così che si possono formare delle lunghe catene di atomi di carbonio, uno uguale e legato all’altro senza distinzione, o anche dei cerchi, fatti da pochi atomi di carbonio che mettono tutto in comune, come attorno a un tavolo tenendosi per mano. Catene e cerchi di carbonio sono alla base della struttura e dinamicità di ogni forma di vita, a cominciare dalla membrana che delimita una cellula e i cavi che la tengono insieme, ai blocchi di energia e i macchinari interni che la fanno funzionare fino ai lunghi nastri di informazione genetica che si trasmettono di generazione in generazione.
Atomi di carbonio che si prendono per mano
La piccola molecola di etanolo con i suoi due atomi di carbonio è capace di interagire e interferire con tutte queste grandi molecole fatte anche di carbonio, ma può al tempo stesso intrufolarsi nei reticoli complessi che esse formano, superando ogni barriera. È così che l’etanolo passa dalla bocca e lo stomaco di chi beve fino al sangue, fegato e cervello. Mentre è nel fegato che l’etanolo può causare i più gravi danni, è nel cervello che la sua forza si sprigiona.
Esso arriva velocemente ai centri del pensiero e del linguaggio che scioglie e lascia correre, abbassando le barriere. Al tempo stesso, stimola i centri del benessere, del buon umore e del sentirsi bene insieme. Alla fine, porta anche il sonno e con sé la sospensione di ansietà e dolore. Oltre che come inebriante, l’etanolo è stato usato fino dagli albori dell’umanità come analgesico.
Esso ha una struttura molto simile all’etere, il capostipite degli anestetici moderni, anch’esso composto di due atomi di carbonio. È così che la chimica, con molecole piccole e semplici come l’etanolo e l’etere, si può prendere una facile rivincita sulla grande presunzione del cervello umano, mettendolo ai suoi piedi.
Ma il segreto del vino non si riduce ad acqua ed etanolo e la sua complessità è altrove. La produzione e cultura del vino continua a essere un argomento affascinante per tutti i tempi.
Esso è stato per millenni appannaggio dell’area mediterranea, ignorato da antichissime civiltà come quella cinese o indiana, dove invece si faceva uso di altre bevande alcoliche. L’ unicità del vino, e di ogni vino particolare, si spiega solo con gli altri suoi mille ingredienti, tutti a base di anelli di carbonio con qualche piccola modifica, che determinano colore, profumo e sapore. Essi sono il prodotto del succo di tanti chicchi d’uva e rispecchiano non solo il tipo d’ uva, ma la terra e il pendio in cui è cresciuta, e l’anno e il sole sotto il quale è maturata.
Tutto questo è ben noto agli esperti, che possono facilmente parlare di pregi e difetti di ogni bottiglia di vino. Ma, oltre alla bontà del vino, chi di loro sa dire cosa lo può rendere santo? I teologi hanno discusso di questo per tanti secoli. Ma chi di loro lo sa spiegare agli altri?
Chi scrive non è un conoscitore di vini, né un teologo, semplicemente uno amante del “buon bere in compagnia”. Soprattutto gli piace il vino rosso che, rispetto al bianco, contiene molti più anelli di carbonio che derivano dalla macerazione delle bucce dei chicchi d’ uva insieme al succo. Rosso è anche il colore del sangue, dei molti calpestati e schiacciati nei secoli, come quello del vino “tramutato” in sangue di Cristo, ogni volta che se ne celebra il sacrificio sull’altare.
Sangue di Cristo sull’altare
Con il dogma della transustanziazione, ci si riferisce al passaggio da una sostanza all’altra: mentre gli “accidenti” rimangono gli stessi, si tratta niente di meno che di un cambiamento totale della sostanza del vino in quello del sangue di Cristo.
È possibile cercare di interpretare questo grande mistero un po’ alla buona, in modo da proporlo anche a chi non sta a sentire e non va mai a messa? Tornando all’umiltà del vino, si vede subito che la sua sostanza sparisce in un batter d’occhio, quando lo si condivide con gli amici.
Gli accidenti, le molecole di cui è fatto, rimangono gli stessi, ma il vino stesso è “incorporato” in chi lo gusta con piacere. Pensando al vino sull’ altare, non si potrebbe pensare che la sua sostanza sparisce quando il calice è innalzato e dunque “condiviso” con chi assiste e partecipa al grande Sacrificio?
Quel vino consacrato sull’altare si tramuta nel sangue di Cristo, che scende per diventare sangue di tutti noi. Esso non è versato per niente, ma per la remissione dei peccati. La remissione dei peccati si trova nel volerci bene, perdonando gli altri con noi stessi. Come raccomandava Gesù, prima di andare in chiesa bisognerebbe andare a far pace con chi ci ha offeso. Che modo migliore di far questo che portandosi con sé del buon vino da bere insieme guardando avanti?
Articolo pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 10 novembre 2018
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