Nebbiolo, il vino che ha segnato la storia del Piemonte
La presenza del nome Nebbiolo nei documenti storici ha suscitato l’attenzione di molti autori. L’opera che l’Accademia Italiana della Vite e del Vino ha dedicato alla storia della viticoltura e dell’enologia delle varie regioni rappresenta un’ottima sintesi e una preziosa fonte d’informazioni (Berta e Mainardi, 1997). Risulta che il Nebiul era coltivato nel 1268 a Rivoli, sui primi contrafforti delle Alpi torinesi. Successivamente nel 1300, Pier De’ Crescenzi, nel “Ruralium Commodorum” scrive dell’uva Nebiula come “…meravigliosamente vinosa… e fa ottimo vino e da serbare e potente molto…”
Gli statuti del Comune di La Morra lo citano nel 1495 come vitigno prezioso e da proteggere. Nel 1600 G.B. Croce qualifica il Nebbiolo come “regina delle uve nere”. Appare certo che il Nebbiolo sia stato il vitigno più anticamente coltivato nel territorio dell’attuale Piemonte.
Solo nel 1600 si registra la diffusione del vitigno Moscato, per produrre vini dolci “alla greca”, mentre più tardiva ancora è la conferma della presenza del vitigno Barbera, che occupa oggi metà della superficie coltivata a vite in Piemonte, ma che si diffuse soprattutto nella fine del 1800 con l’avvento delle malattie della vite (fillossera, peronospora) e la conseguente ricerca di vitigni più rustici e produttivi. Così il Nebbiolo perse terreno, rimanendo il vitigno per eccellenza solo in quelle aree dove più chiara era la grandezza dei vini prodotti, soprattutto, nella zona delle Langhe.
Risale al 1730 una delle prime citazioni della denominazione “Barolo”, in un carteggio tra mercanti inglesi, l’Ambasciatore dei Savoia a Londra e gli intendenti piemontesi. E’ il periodo in cui l’Inghilterra, in guerra con la Francia, cerca altri paesi fornitori di vino, individuando nel Barolo uno dei prodotti atti a soddisfare le esigenze del mercato d’oltremanica. A causa delle evidenti difficoltà di trasporto, gli inglesi si orienteranno poi decisamente su altre zone e altri vini, come Porto e Marsala.
Successivamente, durante le campagne napoleoniche in Italia nel 1799, il generale von Melas, comandante delle truppe austriache, invia una lettera al Comune di Barbaresco nella quale ordina di “far condurre al campo di Bra una carrà di eccellente Nebbiolo” per festeggiare la vittoria conseguita dal suo esercito nei pressi di Genola sulle truppe francesi.
A metà 1800 si avvia per il Barolo quel processo che avrebbe portato in pochi decenni il Nebbiolo a diventare quello che oggi conosciamo: un vino secco, di corpo, adatto all’invecchiamento. I marchesi Falletti a Barolo, Carlo Alberto di Savoia a Verduno, Camillo Benso Conte di Cavour a Grinzane, influenzati dai contatti con la nobiltà ed i tecnici francesi, sono i grandi personaggi che hanno condotto il processo di trasformazione e reso il Barolo il grande vino che oggi conosciamo. Sono stati anni di importanti innovazioni, sia in campagna, sia in cantina.
Molti testi attribuiscono a Louis Oudart, intraprendente enologo francese, l’introduzione dalla Francia di tecniche innovative per vinificare il Barolo, ma prima di lui altri personaggi, sempre ispirandosi ai caratteri dei vini d’oltralpe, segnarono la storia dell’enologia piemontese: il generale Paolo Francesco Staglieno e il Conte Camillo Benso di Cavour.
Il generale Staglieno alla corte di Carlo Alberto
Il generale Staglieno nel 1835 è autore della prima edizione di un libro dal titolo “Istruzione intorno al miglior modo di fare e conservare i vini in Piemonte”. Dal 1836 al 1840 è nominato dal re Carlo Alberto direttore della vinificazione nella tenuta reale di Pollenzo. Sotto la sua guida la cantina di Pollenzo diventa un vero e proprio laboratorio dimostrativo in cui applicare i princìpi che il generale aveva raccolto nel suo libro già citato, andato subito esaurito e ristampato nel 1837.
La sua enologia, riassunta nelle seguenti poche righe, appare ancora oggi attuale: “buona scelta delle uve sia per la qualità sia per la maturazione e la sanità; macerazione delle medesime per due, tre o più giorni in recipienti a ciò destinati; pigiatura ben eseguita prima di chiudere le uve nei tini; esclusione di quasi tutti i graspi dai tini; somma pulitezza nei vasi, negli utensili e nei manuali che vi lavorano; follatura replicata delle uve nel tino; tino chiuso ermeticamente ed applicazione della «macchinetta di Madamigella Gervais» per l’uscita del gaz carbonico eccedente; svinatura quando il liquido sia ben freddo e ben limpido; depurazione nella botte all’equinozio di primavera per mezzo delle polveri di Mons. Julien. In caso di lunghi viaggi e di conservazione nelle botti per più anni, zolforazione del liquido nella botte. Tutto questo «senza far caso di ben molte altre diligenze e cure tutte ben utili ed indispensabili per la buona riuscita del metodo» e rese di pubblica conoscenza nella citata “Istruzione” (Mainardi, 2004).
Dai suoi scritti si evince la necessità di fare un “vino secco, senza ombra di dolce”, e nel caso del Nebbiolo, si prescrive un invecchiamento poiché “…non sono nella loro perfetta bontà se non quando tocchino il quarto anno dalla loro fattura” (Mainardi, 2004).
Risulta quindi infondata l’attribuzione, spesso presente in letteratura, della denominazione di “vini alla Staglieno” a quelli dolci in voga all’epoca, in quanto col termine abboccato, utilizzato dallo Staglieno per indicare i vini di qualità, egli intendeva un vino gradevole, gustoso, soave al gusto, non acido o acescente. Infatti in alcune sue lettere emerge che“….ben sovente che la fragranza e l’abboccato di un vino si mantengano mascherati sino al totale compimento della prima e della seconda fermentazione, prima nel tino e poi nella botte” (Staglieno, 1845).
Per verificare la qualità e la stabilità del vino prodotto nelle tenute di Carlo Alberto con i suoi metodi il generale effettuò, nel 1841, una spedizione di barili di vino nelle Americhe, a Rio de Janeiro e a Bahia, con l’intesa che venissero rispediti al mittente, affrontando quindi ben due volte il lungo viaggio per nave. I vini ritornarono nel 1843 e a sua detta “non solamente incolumi, ma ben anco migliorati assai” (Mainardi, 2004).
Solo successivamente (dopo il 1843) emerge la figura di Louis Oudart, operante in Piemonte dapprima come commerciante di vino e poi anche come tecnico. A lui si deve probabilmente l’inizio della commercializzazione all’estero dei vini di Cavour e della marchesa Falletti, anteprima del successo internazionale dei vini a base Nebbiolo del Piemonte. La collaborazione di Oudart con le cantine di Pollenzo appare invece limitata alla produzione di una partita dimostrativa (1844), a cui però non seguì una collaborazione sistematica.
Cavour: uno statista impegnato nell'agricoltura
Nel rileggere la biografia del Conte Camillo Benso di Cavour si rimane colpiti dalla frenetica successione degli avvenimenti che hanno caratterizzato la sua intensa vita e da come i suoi interessi siano stati sempre numerosi, tutti trattati con grande impegno e capacità. Anche negli anni di maggior impegno politico il Conte non smise mai di interessarsi di agricoltura nelle sue terre, in particolare nella tenuta di Leri nella pianura risicola vercellese, sua autentica passione, e nelle vigne di Grinzane, da dove esercitò una grande influenza per lo sviluppo di tutto il territorio.
A soli 16 anni è già ufficiale del genio in servizio a Genova, ma nel 1831 la sua esuberanza ed il sospetto che potesse nutrire idee liberali consigliano ai suoi superiori e alla famiglia il trasferimento al forte di Bard, (oggi in Valle d’Aosta), luogo strategico dal punto di vista militare, ma certo non gradito al nostro Conte, che non mostrava predilezione per la vita militare. Rimarrà al forte, assistendo ai lavori di ricostruzione, meno di un anno, ma a noi appassionati di vino e della sua storia non può sfuggire una particolare coincidenza. Nel 1831 era governatore del forte di Bard il generale Paolo Francesco Staglieno, lo stesso che, dopo il ritiro dalla vita militare, il re Carlo Alberto nominerà responsabile della produzione enologica della tenuta di Pollenzo (Mainardi,2004; Riccardi Candiani, 2011).
A Grinzane il Conte di Cavour sarà sindaco dal 1832 al 1848, anno in cui viene eletto deputato. Nel nuovo incarico istituzionale il giovane Cavour, all’età di ventidue anni, avrebbe dovuto provvedere, oltre al bene della piccola comunità, a ben condurre le 475 giornate piemontesi di terreno affittate, fin dal 1818, dallo zio duca Aynard Clermont-Tonnerre e le 67 giornate acquistate nel 1829 dalla liquidazione del fallito cavaliere Giuseppe Antonio Veglio di Castelletto. Una significativa proprietà dunque, costituita di nove cascine, estesa su oltre metà dell’intero territorio comunale.
Nel 1850 lo troviamo già ministro dell’agricoltura, nel 1851 ministro delle finanze, dal 1852 al 1861 impegnato come primo ministro in tre governi da lui presieduti. Il Cavour statista, instancabile stratega e mediatore, determinante protagonista della formazione del regno d’Italia, ha percorso la sua luminosa parabola politica in soli quattordici anni, dal 1847 (anno della sua comparsa sulla scena politica del Regno) al 1861, anno dell’unità d’Italia, ma anche della sua prematura morte a soli cinquantuno anni.
Un’importante fonte di informazioni sulle consuetudini aziendali è rappresentata dal carteggio tra il fattore dei tenimenti, Giovanni Bosco, e il segretario del Conte, Carlo Rinaldi, che riguarda però solo il periodo dal 1845 al 1852. Grazie a queste lettere, pubblicate anni or sono dall’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini d’Alba (Silengo, 1979), possiamo renderci conto del fermento innovatore che animava il lavoro della tenuta sotto la guida sapiente del Conte.
La sua passione per i viaggi, l’ammirazione per i vini francesi, considerati fini e adatti all’esportazione, hanno fortemente influenzato le sue decisioni, non ultima quella di provare vitigni francesi, ‘Pinot nero’ in particolare, ad imitazione dei prestigiosi vini di Borgogna, rivelatosi, allora, di difficile adattamento alle condizioni delle Langhe.
Negli anni del citato scambio epistolare si possono trovare tracce di tutte le operazioni che caratterizzano l’attività dell’azienda: dal piantamento delle viti, alla potatura, alla vendemmia, fino alla vendita dei vini. Anche a Grinzane, oltre che a Leri, proverà l’uso del “guano nelle provane”, visto che dal 1845 si occupava di importare, in collaborazione con banchieri genovesi, il prezioso concime da oltre oceano. Dal punto di vista agronomico un fatto sicuramente rilevante è la comparsa nel 1851 a Grinzane, con rapida diffusione l’anno dopo, del terribile oidio, malattia crittogamica conosciuta popolarmente come il ”marino” o ”mal bianco”. Il parassita suscitò paura e sgomento nelle campagne e furono provati molti rimedi empirici, come quello di bagnare i grappoli al calar del sole con acqua e aceto.
Proprio in questi difficili momenti Cavour, già ministro dell’agricoltura, confermò la sua lungimiranza, sollecitando l’interessamento dell’Accademia di Agricoltura affinché si occupasse della difesa dei vigneti invasi dalla crittogama (oidio), istituendo un’apposita commissione.
Anche in campo enologico l’interesse di Cavour fu rilevante, ma, prediligendo le attività di carattere economico organizzativo rispetto a quelle operative, la sua azione fu principalmente di ispirazione, orientamento e razionalizzazione della vinificazione. Quest’ultimo aspetto è confermato da un episodio che si può considerare emblematico. Nell’ottobre 1843 la neonata (1842) Associazione Agraria Piemontese tenne a Pollenzo la sua “Primaria radunanza generale”. In quell’occasione il congresso fu organizzato in dodici comitati per ascoltare e valutare contributi tecnici e scientifici in vari campi dell’agricoltura.
Il settimo comitato fu dedicato alla viticoltura ed all’enologia. Al tavolo della presidenza sedeva proprio il generale Staglieno, affiancato da altri commissari. In quell’occasione il Conte di Cavour presentò una memoria sul come organizzare una tinaia modello, che gli valse il riconoscimento di una medaglia di argento dorato. Possiamo pensare che la razionalizzazione della produzione fosse proprio il suo principale interesse e che le “istruzioni” di Staglieno non cadessero nel vuoto. Il vitigno ‘Nebbiolo’ forniva infatti un vino verosimilmente dolce, perché il suo grado zuccherino elevato non agevolava il completamento spontaneo della fermentazione alcolica. Era quindi instabile e assai poco adatto a farne commercio verso casa Savoia o, come sperava Cavour, verso le corti e i mercati europei.
La storia del nebbiolo prosegue
Certo se il Nebbiolo ha intrapreso la strada che lo ha portato dove è ora lo si deve ai grandi uomini che abbiamo ricordato, ma se l’intero territorio Albese ha poi assunto l’importanza attuale lo si deve alla capacità e alla costanza di tanti produttori e alla formazione scolastica degli operatori, resa possibile dalla nascita ad Alba della “scuola enologica” istituita con regio decreto del 1881 (poco più giovane di quella di Conegliano che fu istituita nel 1876), fortemente voluta dall’allora ministro della pubblica istruzione albese Michele Coppino, dal Comune di Alba e dalla Provincia di Cuneo, che intuirono l’importanza della ricerca scientifica e dell’istruzione nel campo viticoloenologico.
Nel 1887 il Comune di Alba acquista il podere, ora denominato “Ampelion”, dove oggi è presente anche la sede del corso di laurea in Viticoltura ed Enologia dell’Università di Torino, per farne la sede della Scuola. L’inaugurazione avvenne nel 1901.
Quanto esposto non vuole attribuire solo all’albese la primogenitura storica della valorizzazione del vitigno Nebbiolo. Ben sappiamo che il Nebbiolo attuale potrebbe derivare anche da una delle “sottovarietà” che il conte Nuvolone (1798) ricordava: il picotener e relative varianti dell’alto Canavese e Valle d’Aosta, lo spanna di Gattinara , la chiavennasca della Valtellina, la melasca del biellese, la brunenta dell’ossolano, e la martesana del comasco. In queste zone il Nebbiolo è stato coltivato e valorizzato in modo encomiabile, ma si deve riconoscere all’albese e agli uomini che vi hanno operato il merito di aver contribuito in maniera determinante a decretarne il successo.
Articolo tratto da l'Enologo – n°9 2016 – Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
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