Il vino del Friuli
Da l'Enologo - n° 6 Giugno 2018 - Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
Il Friuli è terra di forti contrasti. Una geografia anarchica, che nei ventimila ettari di vigneto vive di un microclima aperto alle più frequenti e imprevedibili varianti, spesso nello spazio di pochi metri. Le varietà autoctone non mancano, anche se più ricca è la presenza dei vitigni internazionali, che alimentano una varietà di uvaggi. L’area dei vitigni storici è in gran parte quella della provincia di Udine. Qui infatti primeggiano tre delle quattro Docg della regione. Il Picolit Bianco dei Colli Orientali, il Ramandolo e il Rosazzo. Mentre il Lison Bianco è il solo a sconfinare e ha patria anche nelle province di Venezia, Treviso e Pordenone.
Vino in Friuli: il predominio dei bianchi
Il grosso della produzione dei vini friulani è costituita da uve a bacca bianca. Fino al 2006 la regione ha ospitato il più classico e popolare dei suoi vini, il Tokaj. Ma da questa data la Comunità Europea ha riconosciuto all’Ungheria l’esclusivo utilizzo del nome. Da allora il vino è etichettato come Friulano. È stata una battaglia impostata male e condotta peggio.
Che si poteva agevolmente risolvere senza rinunciare al nome del vitigno (peraltro portato nell’antica Pannonia dai legionariRomani), ma solo aggiungendo al nome Tokaj l’aggettivo friulano. La rinuncia alla denominazione non è stata ancora digerita da molti produttori.
Il territorio non manca di grosse realtà, con qualificate cantine, sociali e private, ma sono presenze che restano quasi sommerse dalla rete di piccole aziende, che vanno da una superficie di due ettari a quella intorno ai dieci. Si tratta di un tessuto produttivo che impegna l’80% delle strutture.
Il vino in Friuli: vini autoctoni e europei
Far vino da queste parti può essere abbastanza agevole nella zona centrale,quella attraversata dal Tagliamento, ma può diventare un’impresa altrove. Intanto, non è terra di soli autoctoni. C’è un largo ventaglio di vitigni europei (Merlot, Cabernet, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Pinot Nero, Bianco e Grigio, in particolare) e tutti hanno assunto nel tempo una loro sicura connotazione rispetto ad altre aree. Valgano i risultati raggiunti dal Moscato di Momiano e da quello Rosa.
Sono vini di grande fascino, ideali come dessert, che si esaltano se il vino proviene da uve autoctone, come il Moscato Borgogna o la Hrvatica, in verità quasi introvabile.
Friuli: una terra generosa di vino
Far vino nel Friuli significa essere anche bravi vignaioli. La terra è generosa, ma difficile e sensibile ai capricci del clima. I terreni friulani sono costituiti da un insieme di pietre di marna e arenaria, che in superficie tendono a sgretolarsi in argilla finissima. Si ha così un mix miracoloso, che la gente di qui chiama “ponka”.
È questo l’humus nel quale nasce il Picolit “la gemma enologica più splendente del Friuli”, come la definì Goldoni. Un vitigno dalla storia tormentata, noto fin dalla Roma imperiale, ma che ha rischiato di scomparire a metà del Novecento. Il nome richiama in friulano la modesta dimensione del peduncolo, cui si aggiunge la ridotta fecondazione dei fiori - quasi un aborto naturale – e i pochissimi acini (se ne contano dieci/quindici per grappolo).
Un tempo coltivato in tutto il Friuli, oggi è presente solo sui Colli udinesi e goriziani, con una produzione complessiva che non supera i cinquecento ettolitri.
Il Picolit gemma splendente del vino in Friuli
Benché noto fin dall’antichità, il Picolit può dirsi una scoperta del conte Fabio Asquini, che intorno alla metà del Settecento mette insieme una prima documentazione sulle origini del vitigno, che definisce “nettare prodotto dagli sparuti acini del grappolo”. Ma il nobile ha dietro le spalle studi di agronomia, e questo lo aiuta a superare ogni incognita circa la buona conservazione del vino, nel corso dei lunghi trasferimenti. Così Asquini organizza un fruttuoso commercio del Picolit in tutta l’Europa. Così da Venezia il vino arriverà fino alla corte di Vienna e a quella degli zar.
Ma la vera rinascita si deve a Luigi Veronelli, che – su invito della contessa Perusini, della Tenuta Rocca Bernarda - s’impegna a tutto campo per rilanciare il Picolit. Scrive infatti: “Non credo vi sia in Italia vino più nobile di questo…. Potrebbe essere quello che lo Chateau d’Yquem è per la Francia”. E ancora: “Vino fermo e aristocratico, ha nerbo deciso e stoffa alta, che si compiace fino alla coda di pavone. Grandissimo vino, vino da meditazione….”.
Vino in Friuli: prodotti di nobile retaggio
E passiamo agli altri Friulani di nobile retaggio. A cominciare dalla Ribolla Gialla, che è certamente il vitigno più antico, con ben settecento anni di storia alle spalle. Anche se s’identifica, al tempo stesso, con uno dei vini più moderni, nel senso di più vicino agli attuali orientamenti del gusto. Delicato, fragrante di profumi floreali e fruttati, ha la sua patria di elezione nei Colli Orientali. Le origini e il nome sono abbastanza controversi. Importato dai Romani? O dall’isola di Cefalonia? Rabiola o Robola? Le ipotesi non trovano confortanti riscontri, ma il nome è di sicuro legato al particolare contenuto di acidità malica che – in passato - portava il vino a ribollire nelle damigiane.
Terre ideali della Ribolla rimangono le colline al riparo dalle correnti fredde delle Alpi Giulie, ed esposte alla dolce ventilazione che viene dal mare Adriatico. Di un bel colore giallo paglierino (e il nome lo conferma), presenta deboli riflessi verdastri e una gradevole acidità. Il gusto è secco, la gradazione alcolica media. È insomma un vino invitante e beverino.
Dal Verduzzo in purezza si ottiene invece il Ramandolo (il nome è quello di una frazione di Nimis nell’Udinese), esempio di raro equilibrio fra tannino, acidità e dolce. Un vino da meditazione, che non va oltre le trentamila bottiglie. È considerato un “quasi Rosso”, per la sua capacità antiossidante, superiore di circa venti volte a quella di altri Bianchi.
Il Rosazzo - prodotto da una decina di aziende su cinquanta ettari - nasce da un uvaggio abbastanza vario di Friulano, Sauvignon, Pinot Bianco o Chardonnay e Ribolla Gialla. Ha sapore secco e armonico. Si è affermato sui mercati fin dalla metà del Quattrocento, quando l’abbazia di Rosazzo è passata sotto la giurisdizione di Venezia.
A cavallo del Tagliamento, invece, fra Udine e Pordenone si estende il vasto areale (7500 ettari) della Doc Friuli Grave, che con i suoi trecentomila ettolitri copre oltre la metà della produzione regionale. Qui al Refosco dal Peduncolo Rosso bisogna aggiungere tutta la “rosa” dei vitigni non autoctoni, ma consacrati dalla Doc del ’70, a ponte fra le province di Pordenone e di Udine.
E qui, alta su un colle, sorge Spilimbergo, che può fare da porta d’ingresso a un tour sul territorio. A partire da Rauscedo, la frazione di San Giorgio, leader nel mondo per i suoi vivai, e poi da Casarsa (patria di Pasolini), carica di storia anche per i suoi vini. Si prosegue poi verso Maniago, città dei coltelli, ancora oggi in testa per gli arnesi (roncole e lame da innesto), quanto mai utili ai viticoltori.
Superata San Daniele, eccoci ai Colli Orientali, verso quella teoria di paesi con la desinenza in “acco” (Tavagnacco, Remanzacco, Moimacco), che denuncia l’origine celtica dei toponimi. Siamo in quelle terre dove antichi produttori hanno il merito di aver riscattato da un confuso anonimato i vini del Friuli. Un solo nome, Frantinel, trecento ettari fra Grave e Collio.
Vino del Friuli: il triangolo della sedia
All’uscita della Statale per Manzano, s’incontra la sedia più grande del mondo (alta venti metri e pesante ventitre tonnellate). È la classica “cadrega” friulana, di abete rosso. Siamo nel triangolo della sedia (San Giovanni al Natisone, Manzano, Corno di Rosazzo), oltre mille aziende e più della metà della produzione europea.
È il trionfo di quella felice integrazione fra passato, tecnica e fantasia, che ha portato a una notorietà mondiale anche un piccolo centro come Percoto, dove Gianola Nonino - al di là dei suoi distillati nelle originali ampolle di Murano - ha dato vita a un Premio internazionale come il Risit d’Aur.
Veronelli aveva ragione. Nel Friuli il vigneto è onnipresente, anche oltre la campagna. Si pensi alle immagini del vino nel Tempietto longobardo di Cividale, fra tralci con grappoli e pampini. E ancora nella pieve di Nimis (fra i più antichi luoghi di culto), dove trionfano gli stessi grappoli, o in quella di San Pietro a Magredis, che celebra il vino in scene di vendemmia e festose libagioni.
Mandi è il saluto friulano. Forse da “mane diu” (vivi a lungo) e si associa spesso al tajut. Ne è prova il fatto che nel Medioevo Piazza della Libertà, a Udine, era Piazza del Vino, delimitata dalla Loggia del Lionello, dal loggiato di San Giovanni e dalla Torre dell’Orologio. Un trittico che ci riporta di peso a Venezia, per quel Leone di San Marco e i Mori a battere le ore.
Da Via Mercato Vecchio si arriva all’animata Piazza Matteotti, con al centro una romantica fontana. Qui di sera il tajut è un rito, per il quale c’è solo da scegliere dove compierlo. A cominciare dal Caucigh, riconosciuto locale storico, che ospita anche concerti e incontri di cultura. Altro riferimento può essere il Cantarena (un tempo nome di Piazza della Libertà), con belle sale ornate di stucchi e mosaici.
Buon tajut!
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