Nella magia delle Langhe la Scuola Enologica di Alba
Da l'Enologo – n°11 2016 – Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
Di Nino d'Antonio
Sono stato a lungo incerto su questo incipit. Prima tentato dalla facciata della Scuola, con quel suo sapore d’epoca e l’architettura alquanto pretenziosa. Poi dalla scenografia delle Langhe e poi ancora da Cavour, la marchesa Falletti, Oudart. Ma la ricerca di una qualche priorità finiva sempre per spezzare il legame fra territorio e istituzione. Così ho preferito una narrazione aperta, piuttosto anarchica. Dove le reciproche incursioni fra paesaggio e vigneti, laboratori e cantine, memorie e presente, concorrono tutte al ritratto di Alba e della sua celebre Scuola. A cominciare da quelle Langhe, che si aprono fin dall’ampia e distesa pianura sulla sinistra del Po. Un gioco di alture, disposte a catena, dalle creste sottili (di qui il nome), che occupano l’alta e media valle del Belbo.
Alba: un territorio ricco di cultura
Siamo nelle terre di Pavese, nell’ambientazione dei suoi racconti più intensi, ma anche lungo il corso di quel fiume che divide la Bassa Langa, ricca di vigneti, da quella Alta, più chiusa e selvaggia. La vista corre su paesaggi incantati, panorami apertissimi, quinte di colline. Ovunque, qui, l’abitato e le colture tradiscono intensi valori di ambiente e di arte. Si pensi ad Alba, cuore delle Langhe, con le sue testimonianze d’impronta romanica, gotica, barocca. L’arco del Po chiude la plaga delle colline a nord, mentre a sud quasi si confonde e sconfina nelle Langhe, con un andamento dolce, che va dai tre ai settecento metri, percorso e diviso da un’intricata geografia di generosi torrenti e fitti vigneti.
Langhe, terra di grandi vini
Così basta dire Langhe, perché al territorio si associ subito la presenza dei suoi grandi vini: Barolo, Nebbiolo, Barbaresco, Dolcetto, Arneis, Moscato. La cui storica affermazione non è estranea alla stretta connessione fra agricoltura, nobiltà e potere politico.
E qui il rinvio a Cavour è inevitabile. Non solo per aver aperto la via alle fortune vinicole della sua terra, ma per la decisa battaglia contro l’oidio, per le prime ricerche ampelografiche sulle uve da vino, fino alla definizione di una terminologia, allora ancora imbastardita di francese e di dialetto.
Cavour s’intendeva di vini. A cominciare da quel Barolo nato dalla passione di Juliette Colbert, che sposa poco più che ventenne il marchese Tancredi Falletti. Siamo ai primi dell’Ottocento, quando la nobildonna chiede l’intervento di Louis Oudart, l’esperto di cantina che già lavorava per Cavour.
L’obiettivo è tirar fuori un vino da poter reggere il confronto con quelli di Francia. Viene fuori così quel Barolo che da Beppe Fenoglio (lo scrittore ha lavorato a lungo in una famosa cantina) a Pavese a Bocca farà spesso capolino nella migliore narrativa.
Certo, il territorio. Certo, la storia. Ma sono i langaroli a vivere con orgoglio tutto quello che c’è dietro i loro vini, che non rappresentano la sola eccellenza di queste terre (il tartufo bianco di Alba e la nocciola Tonda Gentile non hanno confini), anche se ne interpretano più profondamente lo spirito, la cultura, il passato. Riferimenti come il Museo Enologico de La Morra, il Castello Falletti, l’Enoteca di Grinzane Cavour sono lì a testimoniare quale retaggio storico ci sia dietro i vini delle Langhe. Una storia nella quale un posto d’onore spetta alla Scuola di Enologia di Alba, alle cui lontane ricerche si deve, fra l’altro, la straordinaria scoperta degli innesti con le viti americane, per combattere la fillossera.
La visita alla scuola di enologia in Corso Enotria
Sono in Corso Enotria, all’ingresso della Scuola. E provo ad allontanare la folla di pensieri che mi ha accompagnato fin qui. Ma già la data di fondazione - 1881 - e l’intestazione a Umberto I, ad appena tre anni dall’incoronazione, danno la stura a un altro filone. È una stagione prodiga di eventi, tutti destinati a lasciare una lunga traccia. A partire dalle prime puntate di Pinocchio (il libro italiano più diffuso nel mondo) per il supplemento domenicale del Fanfulla. Ma l’annata registra una straordinaria nascita di geni, dalla scienza all’arte, dalla politica alla religione.
Perché all’anagrafe del 1881 risultano iscritti Fleming, Picasso e Carrà; De Gasperi e Giovanni XXIII. Questo a non tener conto dell’uscita di due libri, che faranno storia nella nostra narrativa: I Malavoglia di Verga e Malombra di Fogazzaro. Ho ceduto ancora una volta a questo gioco dei rinvii, per cui rischio di uscire dal seminato.
La facciata dell’Istituto mi ha tratto in inganno: l’architettura ad archi ospita la cantina, mentre la scuola è nell’edificio lineare, ma più antico. Dal Duemila, grazie all’accorpamento delle quattro sezioni, è Alba a gestire le sedi del comprensorio. Così al comparto enologico si è aggiunto quello per i cereali e la zootecnia a Fossano; per l’ortofrutta a Verzuolo e quello a indirizzo viticolo a Grinzane Cavour.
È nato così un campus unitario della Scuola, pur nella diversità dei percorsi didattici. In totale, siamo sui mille allievi, di cui circa quattrocento iscritti al corso di Enologia. Il che comporta non solo una schiera di docenti (superano il centinaio), ma anche una larga presenza di personale tecnico.
Perché la Scuola di Alba - con le aziende annesse - può contare al proprio interno su oltre quaranta ettari (dei quali venti a vigneto) per le esercitazioni didattiche. Un banco di prova indispensabile per passare dall’apprendimento teorico alla fase operativa. Basti pensare che il lavoro nei vigneti e il successivo processo di vinificazione nella sede principale producono ben quattrocento ettolitri di mosto e trentamila bottiglie.
La scuola enologica in Corso Enotria: le voci dei protagonisti
Fra le pareti della scuola, la suggestione del centro storico di Alba è appena percepibile. Eppure, la Casaforte Riva, la Loggia dei Mercanti, i porticati medievali carichi di magia, la via Maestra col vivace mercato settimanale e il susseguirsi delle architetture, dal Gotico al Liberty, risultano estranei a questo ambiente. Qui, a fare da protagonista, è la natura, con le sue stagioni e le sue leggi. Che vanno indagate al di là di ogni ricorrente manifestazione. Perché non c’è più spazio per i vecchi schemi, né per soluzioni empiriche. La viticoltura e l’enologia hanno consentito ai nostri vini di recuperare secoli di arretratezza rispetto alla Francia. Oggi il confronto è più che aperto, e soprattutto ad armi pari.
Ne parlo con l’ex dirigente, prof. Renato Parisio (era giugno ed era ancora lui in carica, mentre ora la guida è passata alla prof.ssa Antonella Germini). Il nome mi rimanda subito a quel Giulio Parisio, napoletano, al quale si deve il più ricco archivio fotografico sulla città, fra Otto e Novecento. Ma il preside è nato a Genova, da genitori piemontesi, non manca di precisare. Facciamo intanto un giro per le aule. Ho chiesto di ascoltare qualche lezione, prima di visitare i laboratori e la cantina. Per chi viene da studi classici, il linguaggio dei lieviti e degli antociani non è molto familiare. Si aggiunga che qui è scomparsa del tutto l’immagine del docente che pontifica dalla cattedra a una scolaresca subordinata e attenta. La lezione procede in un rapporto paritetico, dove l’alunno non esita ad avanzare le sue osservazioni. “Tutto quello che dico va poi verificato in laboratorio, perché solo allora diventa una nozione meritevole di essere acquisita”, puntualizza un garbato docente di Microbiologia.
Chiedo qualche notizia sull’indice di frequenza del sesto anno, per la qualifica di Enotecnico. L’iniziativa ha incontrato il favore di quei giovani che puntano al conseguimento del titolo per l’accesso al mondo del lavoro. Il corso non interessa invece i diplomati, che scelgono di frequentare l’università per la qualifica di Enologo.
E a proposito di università, quella di Torino ha una sede distaccata ad Alba per i corsi di Viticoltura ed Enologia. “È una grande opportunità, anzitutto per gli allievi. Ma direi anche per i docenti, che sono stimolati ad un continuo aggiornamento. Senza contare - aggiunge il preside - che è un implicito riconoscimento a quel contributo di ricerca, che la scuola ha portato avanti sin dalle origini”.
Parisio, sessantanni con evidente disinvoltura, a dispetto di una cupola di candidi capelli, specializzato in Viticoltura ed Enologia, un’istintiva simpatia, tende a non personalizzare l’immagine della Scuola. Così non esita a coinvolgere prima il vicepreside, Antonio Grasso, nativo di Ariano Irpino, ad Alba da venticinque anni, memoria storica dell’Istituto ed esperto in Progetti Didattici. E poi, il direttore amministrativo, Antonio Campisi, un giovane funzionario quantomai addentro alla complessa gestione delle quattro sedi e delle loro diverse attività.
Le attività esterne della Scuola enologica di Alba
Viene a costituirsi così un trittico di esperti che non mancano di volta in volta d’integrare il corredo d’informazioni, sulla base delle singole competenze. La partecipazione dei miei interlocutori si fa ad un certo punto così viva e sentita che spesso le voci si accavallano. C’è in ognuno di loro la preoccupazione che io abbia ben recepito ogni aspetto dei vari settori di attività, che non sono pochi e per giunta alquanto estranei alle finalità strettamente didattiche dell’Istituto. La Scuola di Alba non ha mai avuto convitto, tenuto conto che gli studenti provengono in gran parte dai centri delle Langhe. In cambio, vanta due laboratori di chimica all’avanguardia per il livello e la modernità delle attrezzature. Di questi, uno esclusivamente didattico, e l’altro che svolge anche attività di analisi e ricerca per conto terzi.
Perché sotto molti aspetti, la vita delle celebre Scuola di Alba non ha confini. Nel senso che impegna organismi e attività che vanno ben oltre le sue mura.
È il caso dell’Associazione Ex Allievi; degli Scambi culturali con Francia, Spagna e Inghilterra; del progetto Master dei Talenti, promosso dalla fondazione Cassa di Risparmio di Torino; dei convegni e dei seminari di studio ospitati in varie sedi. Ma il fiore all’occhiello - mi dice Parisio con un pizzico di orgoglio - è il protocollo d’intesa sottoscritto con l’Università cinese di Luoyang per scambi culturali, didattici e di ricerca, dalla vite al vino.
Un’iniziativa che non è estranea all’impegno che la Scuola riserva da sempre al recupero di quei vitigni pedemontani, altrimenti destinati a scomparire. Così, nella sede staccata di Verzuolo, è nato a tal fine un vigneto sperimentale, che sta riportando in vita gli ultimi ceppi.
È un impegno che coinvolge anche le varie comunità, particolarmente sensibili ai valori e alla memoria di quel passato langarolo, meritevole di essere riportato in vita.
È evidente che il ruolo della Scuola va ben oltre le sue finalità formative e didattiche. Basti pensare al progetto “Viniveri”, che - grazie al contributo delle Regione Piemonte e della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo - mira a ridurre i trattamenti fitosanitari nei vigneti, sulla base della rilevazione preventiva dei dati climatici.
E come non bastasse, va registrato il crescente successo del Premio Bacco e Minerva, istituito dal Ministero della Pubblica Istruzione. Le quaranta scuole agrarie, che in Italia producono vino, sono chiamate a concorrere tra loro. La gestione della gara è affidata di anno in anno alla scuola che ha vinto l’ultima edizione. In più, le due commissioni sono formate una da docenti e l’altra da allievi. Per l’anno in corso, la vittoria è andata ad Avellino, con il suo Fiano.
“Non dimentichiamo il carcere e l’ospedale”, aggiunge sollecito il preside. I due riferimenti mi lasciano per qualche istante perplesso. Ma si tratta di due iniziative sociali, che testimoniano ancora una volta quanto la Scuola di Alba sia attenta e sensibile ai bisogni del territorio. Nel carcere locale c’è un vigneto affidato alla cura dei reclusi. La Scuola ritira le uve di Barbera, le vinifica e realizza oltre duemila bottiglie, che vengono poi gestite dall’Amministrazione Penitenziaria. È qualcosa che va oltre l’impegno dei detenuti, fino a scandire il tempo della prigionia da una vendemmia all’altra. Di qui forse l’ambiguità di quell’etichetta che recita “Vale la pena”.
Per l’ospedale, invece, la Scuola ha finanziato l’arredo di una camera, mettendo a disposizione trecento bottiglie di Barolo, formato Magnum. L’iniziativa ha preso l’avvio nel 2013 e avrà la durata di sette anni.
Siamo alla pausa caffè, che da napoletano non manco di lodare. Scoprirò, poi, che al banco c’è un giovane di Angri, in provincia di Salerno. Arriva intanto un ragazzo alto e riccioluto, sfregiato da un maldestro taglio di capelli alla mohicana. Porta il cosiddetto Numero Unico, la pubblicazione che le tre quinte realizzano ogni anno alle soglie dell’Esame di Stato.
Il preside si affretta a passarmi una copia. E io non rinuncio a curiosare fra i testi. C’è un profilo per ogni docente e per ogni alunno, che va dal soprannome agli atteggiamenti più comuni alle frasi celebri. I professori in verità ne escono piuttosto malconci. Il linguaggio è irriverente, carico di epiteti, battute, frecciate. Si direbbe che tutto quello che è stato mal digerito nel corso di questi anni viene fuori senza scrupoli e senza veli. Ma anche il ritratto dei giovani non incontra la generosità dei colleghi. I testi colpiscono senza risparmio ogni debolezza, il più frequente intercalare, le discutibili preferenze nel vestire, specie per quanto riguarda le ragazze.
Insomma, un vasto campionario umano, visto con qualche punta di sarcasmo e tanta ironia. Ma la scuola è finita. Ed è tempo di sfogarsi!
Di Nino d'Antonio
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