Viaggio alla scoperta del Parmigiano Reggiano
di Nino D'Antonio
Mi piacerebbe visitare un caseificio fra Parma e Reggio, in compagnia di uno di quei monaci benedettini o cistercensi che hanno dato vita – nove secoli fa – a uno dei nostri formaggi più celebrati nel mondo. A parte l’ambiente, credo che il frate casaro ritroverebbe pressoché uguale il lungo rituale della lavorazione, affianco ai gesti antichi e sapienti degli uomini.
A cominciare dalle due mungiture, all’alba e al tramonto, fino all’aggiunta del caglio naturale di vitello. E poi le vasche con il latte serale da cui estrarre il burro al mattino, e ancora le due partite di latte da versare insieme nelle grandi caldaie di rame, a campana rovesciata.
E ancora il prodigio del coagulo, in soli dieci minuti. Proprio come allora.
E l’uomo che con l’aiuto dello “spino” rompe la massa compatta in piccoli granuli. Un processo che è rimasto fermo nel tempo, anche nelle operazioni successive.
A questo punto non resta che da verificare la cottura intorno ai 55 gradi, e vedere i granuli precipitare sul fondo della caldaia, fino a formare una sola massa. Meno di un’ora, e la pasta viene estratta. L’operazione richiede occhio ed esperienza perché la forma non vada in frantumi. Ma ormai ci siamo. Tagliato in due, il formaggio viene avvolto nella tipica tela e chiuso in quella “fascera”, che gli darà la forma definitiva.
Nessuna variante rispetto al Medioevo. Quelli gli ingredienti, i gesti, i tempi. L’uomo ha solo imparato a governare la natura, affinando nei secoli una manualità - e un fiuto e un orecchio - che non hanno confronti. Il monaco non avrebbe alcuna difficoltà a ritrovare tale e quale il suo formaggio, che allora non aveva nome.
Un retaggio di storia e civiltà
Certo, una visita ai laboratori, dove oggi il latte viene sottoposto a rigorosi controlli, sarebbe uno choc. E così per tutti gli interventi che accompagnano la stagionatura, dall’applicazione della placca di caseina (ovvero il numero impresso su ogni forma, come una carta d’identità) alla fascia marchiante, con il mese, l’anno e il numero di matricola del caseificio, fino a quella inconfondibile scritta a puntini.
Si tratta di operazioni che lascerebbero disorientato un casaro delle origini, ma che hanno il merito di garantire la qualità e la tutela di quelle tecniche che costituiscono il grande retaggio di storia e di civiltà del Parmigiano Reggiano. Pochi formaggi sono infatti così strettamente legati a un territorio, peraltro assai ricco di pascoli e di corsi d’acqua. Due elementi che non sono estranei alla varietà del foraggio di cui si nutrono i bovini e di conseguenza agli eccellenti requisiti del latte. Che viene prodotto da oltre tremila allevamenti e lavorato da circa quattrocento piccoli caseifici, entrambi sottoposti al rigoroso controllo di un Consorzio di Tutela, fra i più attivi ed efficienti d’Italia.
Intanto, a distanza di pochi giorni dall’immissione del formaggio nella “fascera”, perché acquisti la ben nota forma, il parmigiano viene calato in acqua e sale per circa un mese. Quindi lasciato riposare su tavoli di legno, dove la faccia esterna, nel corso di almeno un anno, ha modo di asciugarsi fino a dar luogo a una crosta naturale. Ma quanto latte occorre per ogni forma? Non meno di seicento litri, e questo spiega quanto prezioso sia il parmigiano, anche per le sue fasi di stagionatura, tutte soggette a controlli e tutte registrate. Si va così da un anno, segnato con solchi paralleli, al bollino aragosta per i diciotto mesi, e poi a quello d’argento per i ventidue, fino a quello d’oro per gli oltre trenta. Ed è questo ovviamente il Parmigiano Reggiano più deciso nel sapore e complesso negli umori.
I caratteri del territorio
Un’anagrafe di questo formaggio, gloria delle nostre aziende casearie, non può che muovere dal territorio in cui nasce. E qui i confini, codificati da secoli di storia, includono le province di Parma, Reggio, Modena, Bologna - riva sinistra del Reno - e Mantova, riva destra del Po. Un comprensorio che al di là dei diversi trascorsi - si pensi che Parma e Reggio erano due Stati fino al 1859 - ha sempre offerto una felice unità geografica, sicura premessa per una forte economia agricola e di allevamento. Un fenomeno che, dai primi passi in epoca conventuale, ha poi coinvolto la grande proprietà terriera, grazie soprattutto al carattere dei luoghi che è rimasto lo stesso nel corso dei secoli. Così il ridotto impatto ambientale, nell’area di produzione del formaggio, ha lasciato spazio alla varietà di quei foraggi, nutrimento ideale per le mucche e per un latte ricco di proteine e di grassi.
Inoltre, c’è uno stretto legame tra la natura di questi terreni e le risorgive che, mantenendo costante la temperatura dell’acqua, consentono di avere in ogni stagione erba generosa e fresca per il miglior alimento dei bovini. I quali, a partire dal Novecento, sono in gran parte di razza Frisona, al posto della tradizionale Reggiana Rossa, una mucca antica, introdotta forse dai Longobardi, che per generazioni ha dato carne, latte e tanto lavoro. Unica pecca, una resa più che modesta di latte, intorno alla metà di quello prodotto dalla Frisona.
Le pezzature del parmigiano vanno dai ventiquattro chilogrammi a oltre i quaranta, con una media di 38,5. Il che vuol dire sedici litri di latte per ogni chilo di formaggio. Un rapporto che trova ampio accoglimento nelle moderne “caldere”, in grado di contenere fino a dieci quintali di latte, destinati poi a essere trasformati in sole due forme.
Ora, se si pensa che una mucca ai tempi dei Benedettini dava non più di tre litri di latte, è facile dedurre quanto allora fosse modesta e quindi preziosa la produzione. Che aveva luogo in appositi “caselli” (ce n’è ancora qualcuno nella campagna emiliana), a forma di ottagono, e senza alcuna finestra, ma chiuso da una griglia di mattoni, costruita in modo da far passare l’aria per la stagionatura.
Ed è fra queste pareti che il latte veniva riscaldato con fuoco a legna, nelle campane di rame. Allora come oggi latte crudo, caglio (che è un enzima naturale) e sale. Poi la “fascera”, il bagno in salamoia e la lunga fase di stagionatura.
Riferimenti letterari
Ma c’è qualche traccia di tanta storia nella letteratura? Direi più in quella delle origini che nella narrativa contemporanea. E si spiega. La diffusione e la popolarità del formaggio ne ha ormai svelato ogni mistero, mentre le lontane immagini hanno di sicuro esercitato una forte suggestione.
Si pensi a Boccaccio, a Teofilo Folengo, al Burchiello. Nel Paese di Bengodi, Boccaccio descrive una montagna di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale “stavan genti che niuna altra cosa facevan che fare maccheroni e raviuoli...”.
In tempi più vicini a noi, Stevenson ne L’isola del tesoro scrive: “Hai visto la mia tabacchiera, vero? Eppure non mi hai mai visto fumare tabacco; la ragione è che vi tengo dentro un pezzo di formaggio parmigiano, un formaggio fatto in Italia e molto nutriente”.
In ogni caso, riferimenti letterari a parte, a tirare le somme del Parmigiano Reggiano non si fa fatica. È un formaggio Dop, a pasta dura, prodotto con latte crudo, parzialmente scremato per affioramento, e privo di additivi o conservanti. Il resto riguarda le fasi di lavorazione e soprattutto il suo destino finale.
Articolo di Nino D'Antonio
Articolo tratto da l'Enologo – n°3 2016 – Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
Ti è piaciuto questo articolo? Votalo!
Se l'articolo ti è piaciuto, metti le 5 stelline!
Altri articoli simili a "Viaggio alla scoperta del Parmigiano Reggiano"
Enoturismo in Italia, ecco i dati del 2016
18 Maggio 2017