Giacomo Tachis: in memoria di un maestro
La scomparsa di un uomo - anche di quello più modesto - rappresenta sempre un vuoto. È come se andasse in fumo un’intera biblioteca, recita un’antica massima. Perché ognuno di noi si porta dietro una storia, un’esperienza di vita, un lavoro al quale ha provato a dare il meglio di sé. Quando quest’uomo si chiama Giacomo Tachis, il vuoto si fa immenso, incolmabile. Una di quelle voragini che sono destinate a non essere mai colmate. Ho avuto il privilegio di conoscerlo, di passare molto tempo con lui ascoltando i suoi consigli che poi si sono dimostrati preziosi per il prosieguo della mia professione. Ricordo il tono pacato, la voce sommessa, il garbo e la prudenza - direi - con la quale avanzava le sue opinioni. Che non erano mai un giudizio, ma un’ipotesi sempre carica di dubbi e tutta da verificare. Di qui il magistero del suo esempio e di qui quel “modello Tachis”, che sono convinto terrà cattedra a lungo.
Mino (così lo chiamavano gli amici) era un intellettuale, prima di essere un grande straordinario enologo, uno di quelli che non hanno termini di confronto per aver legato il proprio nome ai vini più famosi. Vale per tutti il Sassicaia, intorno al quale - a partire dal “prestito” di Tachis da parte di Antinori al cugino Nicolò Incisa Della Rocchetta - sopravvive una fioritura di leggende.
Ma qui io voglio ricordare, anzitutto a me stesso, tre precise affermazioni di Tachis, che riassumono la sua rigorosa filosofia. E che ho ritrovato, poi, in Sapere di Vino, il suo libro che raccoglie oltre mezzo secolo di esperienze. Senza tener conto di quella continua tensione per la ricerca, che ha segnato la sua esistenza. La prima ha il sapore di una norma di comportamento: “Un enologo deve vivere nella scia di un’incessante ricerca. Ritenersi soddisfatto degli esiti raggiunti, significherebbe la fine”. La seconda affermazione recita: “L’enologia - oggi ancora più di ieri - è in gran parte microbiologia applicata al vino. Un processo da gestire attraverso interventi mirati sui lieviti e sui batteri. Specie su questi ultimi, che spesso fanno confondere, pensare, soffrire l’enologo…”. Il che ci riporta decisamente all’uomo, che, al di là della natura, rimane l’indiscusso protagonista del vino.
E ancora: “La crescente diffusione dei contenitori d’acciaio ha cambiato la fisionomia delle nostre cantine. Anche l’Antinori, nella quale ho lavorato per oltre trent’anni non è più quella di un tempo. Ma c’è poco da fare. Il vino non basta produrlo, bisogna venderlo…”.
Nel ’99, l’Università di Pisa ha conferito a Tachis la laurea honoris causa in Scienze Agrarie. Un riconoscimento che l’ha riempito d’orgoglio e che si è aggiunto a un corteo di premi, attestazioni e onoreficenze, fra le quali la nomina a socio dell’Accademia della Vite e del Vino e a quella dei Gergofili. Con la sua scomparsa, il mondo del vino perde un protagonista di statura internazionale, un uomo di grande rigore morale e di sicura onestà intellettuale.
Articolo tratto da l'Enologo – n°3 2016 – Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
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