Il vino della Venezia Giulia
Da l'Enologo - n°6 Maggio 2018 - Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
Bisogna proprio cercarla. E avere la pazienza e il gusto per farlo. Perché la storia della Venezia Giulia – al di là di Trieste - non ha più grandi e compiute testimonianze. Si è come frantumata, dispersa, gli avanzi coinvolti da imprevedibili destini. I templi, le porte, i castelli, le mura, sono a mano a mano usciti di scena. E i segni della loro presenza rimossi, utilizzati altrove, mescolati a fabbriche anonime, avviliti da accostamenti azzardati. Così un fascio di secoli va ricercato qua e là, fra case e botteghe, nel tracciato più fitto di pochi borghi, nei vecchi androni dei palazzi, nei portali, nelle mensole dei balconi. Scopri allora che sono frammenti di cornici romane quei fregi che danno una nota di distinzione ai palazzotti austriaci, e austere colonne medievali o rinascimentali, quelle che fanno da rinforzo agli spigoli degli edifici, ubicati all’incrocio di due strade.
Il vino in Venezia Giulia: terra divisa tra due confini
La Venezia Giulia è terra mutilata. Da sempre. E poco più di mezzo secolo fa, era ancora divisa in due zone. Come Trieste. In cambio - ironia della sorte - l’unità del territorio va colta nei suoi vini. La Vitovska, la Malvasia Istriana, il Terrano, la Ribolla Gialla, tutti vitigni espressivi di un topos che non ha confronti.
Ma la Venezia Giulia si ritrova anche nelle cave di Aurisina, famose per la pietra d’Istria. Quel “granitello”, compatto e omogeneo, che fa bella mostra di sé nella stazione di Milano, e secoli prima nell’Arco di Augusto e nel Ponte di Tiberio a Rimini. E non è il solo primato. Fra il Carso, l’Isonzo e il mare fermenta una carica di orgoglio per alcune eccellenze, da sempre legate al territorio. È il caso di Monfalcone, che segna il punto più settentrionale del Mediterraneo. La città è tutta nella baia di Panzano, a pochi chilometri dalla foce dell’Isonzo, e può contare su una fitta rete di canali navigabili. Qui siamo di fronte a un duplice record: il più grande stabilimento di Europa per motori navali e il primato mondiale per la costruzione di transatlantici da crociera. A non considerare quel fenomeno che è il Timavo, il fiume carsico che corre dalla Slovenia per quaranta chilometri sottoterra, per riemergere solo a Monfalcone, a poca distanza dal mare. Ma non basta. Perché, a dispetto di tutto questo, la Venezia Giulia continua a sentire sul collo il fiato grosso del Friuli.
Lo scarto fra le due realtà è abissale. Il Friuli occupa il 90% del territorio, che le acque dell’Isonzo attraversano in tutta la sua lunghezza.
Venezia Giulia: solo il 10% del territorio regionale
Alle spalle, la frequente condivisione di millenni di storia, dal Paleolitico all’Età del Bronzo fino a Roma. Che fonda Aquileia, grazie alla presenza di un centinaio di famiglie di legionari. La felice posizione strategica e la vasta rete di vie di comunicazione – in testa il porto di Grado - daranno all’insediamento un’imprevedibile fortuna. La città toccherà, nel giro di pochi anni, ben duecentomila abitanti e sarà elevata da Augusto a capitale della Venethia et Histria.
Poi, con la caduta dell’Impero, la mano passerà alla Chiesa. I vescovi di Aquileia saranno patriarchi, grazie anche alla conversione dei Longobardi al cattolicesimo. Intanto, conclusa un’esperienza di libero comune, Trieste - sulla fine del Trecento – sceglie liberamente di far parte dei domini di Casa d’Austria. Inizia così quella lunga stagione che vedrà la coesistenza di tre culture – latina, slava e tedesca – destinate a influenzare non poco i futuri destini del territorio.
Il Carso, un ambiente unico del Venezia Giulia
E il Carso? Mi riporta alle immagini di Scipio Slataper, che da queste parti è nato: “È terra senza pace, senza congiunture. Non ha un campo per distendersi. Ogni tentativo è spaccato e inabissato”. Eppure senza questa montagna di pietre alle spalle, Trieste non sarebbe più la stessa. Come privarla di San Giusto, del Castello di Miramare, delle sue rive o degli storici Caffè.
Intanto, al di là di ogni suggestione, il Carso rimane aspro e pietroso. La leggenda è fin troppo nota. Dopo la creazione del mondo, Dio vuole liberarsi delle pietre non utilizzate. E affida il compito all’Arcangelo Gabriele, che le raccoglie in un grosso sacco. Ma il diavolo lo sfonda, e i massi cadranno a pioggia, tutti sul Carso.
Di qui “una terra senza terra”, secondo l’amara definizione di Edi Kante, mitico personaggio, che ha fatto da traino al ristretto gruppo di vignaioli che opera lassù. Il Carso dà quello che può, il resto bisogna saperlo prendere. Che significa prima la rimozione delle pietre, e poi la ricerca della terra per impiantare le viti. Ma la terra si trova solo nelle doline, grandi buche (profonde sui quindici metri, con un diametro che va dai dieci ai cento), tutte di proprietà privata. Per cui non resta che comprarle, se si vuole dar vita a un vigneto… .
Ora, per colmare un metro quadrato di roccia, occorre un metro cubo di terra. E questo vuol dire che non c’è solo da scavare, ma anche da curare il trasporto del materiale nel luogo degli impianti. Così, spesso, fra l’acquisto di una dolina e il suo sfruttamento, si passa da una generazione all’altra.
Eppure, a dispetto di tanta dedizione a questa terra e ai suoi celebrati vini, fino ad alcuni anni fa chi arrivava sul Carso, in occasione delle Osmiza (una breve licenza di marca austriaca, che consentiva ai piccoli produttori di fare un po’ di commercio diretto) chiedeva soprattutto Chardonnay e Sauvignon, trascurando quella Vitovska, che è il vino monopolio del Carso.
E questo vuol dire che non è presente altrove, come invece avviene per il Barbera, allevato anche nel Cilento, o per l’Aglianico, che sconfina dall’Irpinia alla Basilicata. La Vitovska, al contrario, ha una sola patria, il Carso. Che rimane un ambiente unico, anche dal punto di vista umano. Ai nostri nonni era caro per i ricordi della Grande Guerra, che qui ha avuto uno dei suoi più tragici scenari.
Oggi, l’altopiano vanta la presenza eroica di una trentina di vignaioli, i cui impianti hanno spezzato l’uniformità del paesaggio. Poi, le Strade del Vino e i tanti punti di ristoro hanno fatto il resto. Ma il carattere del Carso rimane quello: aspro e forte. Al pari della bora.
Trieste e Gorizia: i centri del Venezia Giulia
E qui - fissati i rapporti di grandezza tra il Friuli e la Venezia Giulia (90 a 10) – va ricordato che i centri metropolitani sono solo due, Trieste e Gorizia. Dove all’interno dei rispettivi territori spiccano alcune storiche realtà. Per Trieste, c’è un discorso a parte, mentre quello su Gorizia è già venuto fuori a proposito di Monfalcone e dei suoi cantieri. Ma merita maggiore attenzione, a partire dal capoluogo, che, fino al ’94, ha vissuto col muro, che l’ha divisa da Nuova Gorika.
La città, che il Castello domina dal colle, è al di là dell’Isonzo. Le cui acque di un intenso smeraldo arrivano qui in pianura, fra le ultime tracce delle Prealpi Giulie. Sotto il dominio di Venezia, fin dai primi del Cinquecento, poi del Patriarcato di Aquileia, e infine degli Asburgo, Gorizia – grazie in particolare a questi ultimi – ha assunto quell’aspetto di città giardino, che in buona parte conserva ancora oggi.
Il territorio, che ha vissuto un tormentato destino durante la Grande Guerra - prima conquistato dalle truppe italiane e poi perduto, dopo Caporetto - è stato lo scenario delle dodici battaglie dell’Isonzo. Cuore della città, Piazza della Vittoria, polo dei mercati e delle pubbliche cerimonie, quasi a ridosso della settecentesca Fontana del Nettuno. Poi ancora Palazzo Attemis e Via Rastello, che conserva il suo impianto del Trecento, al pari del Duomo, benché più volte rimaneggiato.
Venezia Giulia: da Cormons a Ronchi dei Legionari
E passiamo a Cormons, ovvero “Cuore dei monti”, secondo l’etimo latino. Siamo ad appena tre chilometri dal confine sloveno, e l’abitato, raccolto ed elegante, porta qua e là i segni della lunga contesa fra Aquileia e i Conti di Gorizia. Poi l’avvento degli Asburgo, fino al ’18. Il Castello di Cormons, il Duomo di Sant’Adalberto e la Chiesa di Santa Caterina sono solo alcune testimonianze delle civiltà, che hanno caratterizzato il destino di questo centro. Dove ha un posto d’onore il monumento a Massimiliano D’Asburgo, in Piazza Libertà.
Fra il Carso e l’Adriatico, spicca invece Ronchi dei Legionari, col suo aeroporto ma anche i mille anni di storia alle spalle. Siamo nella bassa piana dell’Isonzo, in un territorio che nella denominazione ci riporta a D’Annunzio e alla sua impresa su Fiume. Pregevoli alcuni palazzi in stile neoclassico, da Villa Vicentini a Villa Carlo, ma è l’intero centro storico a riservare interessanti scoperte.
Il vino nella Venezia Giulia: Collio grande protagonista
Come avviene nel rituale di ogni spettacolo che si rispetti, l’attore di più largo talento e notorietà si esibisce di solito alla fine. E questa usanza ha un duplice scopo: onorare l’artista e lasciare un forte ricordo negli spettatori. Così ho scelto di trattare il Collio solo a chiusura di questo veloce ritratto della Venezia Giulia. Anche in omaggio a quell’antica tutela che ha sempre accompagnato il suo vino. Quale risulta dagli Statuti di Cormons che vietavano ogni importazione “fintanto che pel pubblico bisogno non ne mancasse del proprio”. E così per secoli, fino al riconoscimento della Doc Collio, nel ’68.
Poi, il terremoto del ’76 metterà a terra una folla di piccoli produttori. I quali eroicamente continueranno a far vino, ma senza poterlo imbottigliare, dopo il crollo delle strutture. Ci penserà, però, Giuseppe Lipari – un enotecnico di origini siciliane – il quale con un lampo di genialità e qualche camion organizza un centro mobile per l’operazione bottiglia.
Ma, visto da vicino, cos’è il Collio? Una geografia di poggi e collinette, che vanno da est a ovest fra le Prealpi Giulie e l’Adriatico. La cui vicinanza non è estranea ai benefici effetti di cui godono le viti. Eppure qui la viticoltura non è sempre agevole e remunerativa. Basti pensare che la resa è spesso così modesta da non raggiungere la metà di quella indicata dal Disciplinare.
Siamo a risultati strettamente connessi alla natura del terreno, quel misto di marne e arenarie, che si disgrega con facilità alle prime piogge. La difesa sta in quei frequenti e faticosi interventi di rincalzo che i vignaioli chiamano “ronco”, un nome quanto mai diffuso nella denominazione delle cantine che operano in loco.
La superficie del Collio è inoltre piuttosto modesta – appena millecinquecento ettari in territorio italiano – suddivisa fra oltre duecento produttori, nel solco di quel tradizionale frazionamento della proprietà terriera, qui assai diffuso. Ma ad onta di questi caratteri, l’aristocrazia dei Bianchi abita qui, fra colli fitti di vigne e cantine dai casati illustri. D’altra parte, la moderna viticoltura è nata proprio nel Collio, dopo la devastazione della fillossera. La riscossa è partita da queste terre non ancora italiane, e da allora continua a costituire un sicuro riferimento per l’attuale enologia.
Da l'Enologo - n°6 Maggio 2018 - Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
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