Contrariamente a quanto potrebbe far supporre la grande diffusione che questo vitigno ha avuto in varie regioni d'Italia (ed anche in lontani Paesi, persino d'oltre Oceano), si può ritenere che il "Barbera" non abbia veri sinonimi. Il Molon, nella sua "Ampelografia" (in cui sono scrupolosamente elencati i sinonimi dei vari vitigni da lui descritti), per il "Barbera" dà una lista abbastanza lunga di pseudo-sinonimi, ma che in realtà non sono che il nome del vitigno con qualche aggettivo qualificativo, o accrescitivo. Esempio: "Barbera grossa", "Barbera fina", "Barbera nera", "Barbera forte", "Barbera dolce", "Barbera amaro", "Barbera d'Asti", "Barbera nostrana", "Barberone", "Barbera mercantile", "Barbera a raspo verde", "Barbera a raspo rosso"... Come si vede, non si può parlare di veri sinonimi. Perciò a ragione Mas e Pulliat nel loro "Vignoble" (1874-75) scrivevano: "Il solo nome che essa dovrebbe portare è quello che le diamo noi (Barbera), perché se in qualche località essa viene anche chiamata B. dolce, B. forte, B. grossa, ecc., gli è che il nome principale è accompagnato da qualificativi designanti dei caratteri fuggevoli e che non hanno sufficiente importanza per designare delle sotto-varietà". E lo stesso riaffermava l'"Ampelografia italiana" nella monografia dedicata a questo vitigno (1879): "Questa vite fortunatamente non ha alcun sinonimo o doppio nome". Diverso è il caso per altri appellativi, come ad esempio "Barbera rossa" (citata da Demarta e Leardi), in quanto trattasi di vitigno differente dal vero "Barbera"; "Barbera riccia" (o "Barbera rissa"), appellativo dato già almeno da ottant'anni a viti di "Barbera" affette da una forma di degenerazione, che sovente è riferibile a quell'ampelopatia che oggi si è convenuto di chiamare "degenerazione infettiva" della vite. Può riuscire interessante riportare quanto in proposito scrivevano gli stessi Demaria e Leardi fin dal 1875: "La Barbera riccia ha nome dal racemo che si presenta attortigliato al nodo... Ma oltre a questi, altri caratteri della foglia e del grappolo dalle altre sotto-varietà la differenziano; se tuttavia (?) si mantengono costanti in diverso suolo e con diversa coltura. La foglia è piccola, allungata assai, con cinque ed anche sette lobi ed i due inferiori che si allargano moltissimo al peziolo, [...] Il grappolo nell'insieme ha i caratteri della "Barbera"; però l'acino è meno ovato, la polpa è più densa e per di più attaccata al fiocine." "Alcuni campioni, e non poco numerosi, sono stati inviati, che presentavano molti acini abortiti ed il grappolo molto più povero, esile, sottile... Ed avvertasi che questo medesimo fatto si ripete in altri vitigni, come nella "Freisa", nella "Bonarda", nel "Cari"". Vitigni del tutto differenti dal vero "Barbera" sono la "Barbera bianca" di talune plaghe della provincia di Alessandria (che verrà descritta a parte) e la "Barbera ciarìa" d'una ristretta zona della provincia di Cuneo (comuni di Pocapaglia e Sommariva Perno, presso Bra). Trattasi d'una delle poche zone del Piemonte che si prestano alle uve da tavola, e infatti questa "Barbera ciarìa" vi viene coltivata per rifornire i mercati locali (Torino compreso) di uve mangerecce. Comunque, anche secondo l'autorevole parere del prof. Satinino che l'aveva studiata, essa "non ha niente di comune colla Barbera del Piemonte, ed il suo nome le è venuto da quello di una famiglia di coltivatori del luogo". Nomi senz'altro errati, ossia falsi sinonimi, sono quelli di "Olivella", "Vespolina, "Ughetta", "Besgano", "Cassolo": nomi dati talvolta, in passato, in provincia di Pavia quali sinonimi di "Barbera"; e lo "Sciaccarello" della Corsica, che l'Ottavi ritenne erroneamente identico al "Barbera" (mentre lo "Sciaccarello" ha foglie glabre!): errore già rilevato dall'occhio infallibile del conte di Rovasenda, al quale, fra parentesi, si deve la prima ampia e accurata monografia sul "Barbera" (1877). Più controversa è la questione di eventuali setto-varietà di "Barbera". Già il conte Lorenzo De Cardenas nell'Acerbi distingueva due "Barbera"; una a "peduncolo rosso" e una a "peduncolo verde"; l'Odart descrisse pure due varietà di "Barbera"; una "Barbera vera" o "Barbera d'Asti" e una "Barbera fine"; Demaria e Leardi scrivevano che le sotto-varietà di "Barbera" sarebbero "tutt'al più tre o quattro"(!). E anche il Molon, pur così prudente, scrisse in proposito nella sua "Ampelografia": "Chi ha visto la Barbera ad acini grossi dell'Astigiano non può crederla identica alla Barbera ad acini piccoli delle Langhe; bisognerà adunque studiare un po' sul posto anche queste questioni, la cui importanza, come ben si comprende, non è soltanto scientifica". Ora, da quando il Molon scriveva queste parole, gli studi da lui auspicati sono stati fatti. E uno di noi, in una sua Ampelografia inedita del 1909, poteva fin d'allora concludere - in seguito a prove effettuate personalmente, trasportando una "Barbera grossa" da un vigneto in piano alla sommità d'un colle solatìo - che "le differenze di volume del frutto, di colore del raspo e specialmente di bontà del vitigno, dipendono esclusivamente dal terreno, dall'esposizione, dallo stato di vigore delle piante", e perciò possiamo concludere col Rovasenda ("Saggio", "io non conosco che una sola Barbera"), che non esistono sotto-varietà di "Barbera".