L'avvincente storia del Cirò
Da l'Enologo - Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
di Nino D'Antonio
Terra dalle sicure origini greche, la Calabria è stata identificata a lungo col nome di Enotria. E poco importa se accogliamo la suggestiva interpretazione di “terra del vino”, o se risaliamo a Enotro, principe arcade, fondatore di alcune colonie sul litorale. La cronologia è abbastanza incerta, complice anche la duplice emigrazione greca, quella sul Tirreno (Ischia, Cuma, Neapolis, Paestum ecc.) e quella sullo Ionio.
E qui – anche a volerne ignorare testimonianze e tracce – la grecità è presente al punto da diventare un tutt'uno col paesaggio. Questo senza scomodare il suggestivo richiamo del tempio di Hera Licinia o quello di Apollo Aleo, o ancora di Pitagora e della sua Scuola. Ma semplicemente facendo tappa a Cirò e a Melissa, dove fra antiche pietre ha trovato casa da sempre l’ulivo e la vite.
Sparsi a piene mani – tanto da non farci più caso – i resti della civiltà greca hanno così perduto la loro severità, si sono fatti familiari, domestici, quasi mortificati fra il tessuto dell’abitato e la vita di tutti i giorni. E fra questi resti, la terra è ricca di vini generosi, anche se la Calabria continua a identificarsi col Cirò. È un po’ come per il Cannonau in Sardegna o il Chianti in Toscana, che finiscono per racchiudere ed esprimere un intero territorio.
Eppure, benché accreditato fra i grandi vini, sia in epoca romana che presso i Normanni e gli Angioini, il Cirò ha rinunciato per secoli ai suoi illustri trascorsi per finire, umile e anonimo, a dare corpo e struttura ai Rossi del Nord e a quelli della Francia. Una condizione comune, un tempo, anche ai vini di Puglia. Di qui il Cirò venduto sfuso, e attento solo alla quantità. Poi, a partire dalla metà degli anni Settanta, una decisa inversione di tendenza, un evento al quale non è estranea la Doc del ’69 – di cui si celebra il Cinquantenario – e le successive modificazioni al Disciplinare, vent’anni dopo.
Il territorio, piuttosto esteso, gode di una felice posizione proprio al centro del Mediterraneo, cui va aggiunta l’eccellenza del clima, la straordinaria fertilità del terreno e una conformazione geografica forse unica. La regione, infatti, è in buona parte montuosa (42%) e collinare (49%), per cui alla pianura non resta che un ristretto spazio. Di contro, è il mare tutto intorno a farla da padrone, con circa ottocento chilometri di coste, che rappresentano il 19% del litorale italiano.
E si sa che il mare apporta benefici effetti anche sui campi. Cereali, uliveti, viti popolano da sempre queste terre, dove il vino sgorgava a fiumi. Sì, perché il vino era già presente in Calabria quando sbarcarono i Greci. Lo provano le monete coniate a Sibari, con l’immagine dell’oinochoe, una caraffa per attingere il vino, e i vasi di Turi (l’antica Thourioi), i cui bolli portavano impressa ancora una caraffa.
In proposito, le fonti storiche non lasciano dubbi. Diodoro Siculo narra che nella piana di Sibari erano molti i proprietari di latifondi ad avere cantine presso il mare, dove il vino giungeva attraverso una fitta rete di canali e di passaggi sotterranei. Un ingegnoso e intricato sistema, che indirettamente conferma l’enorme quantità di vino disponibile.
Plinio riporta poi un’altra notizia sorprendente. A quei tempi la vite era annoverata tra gli alberi, perché il tronco risultava tanto massiccio da essere utilizzato per ricavare statue o colonne, come quelle del tempio di Giunone a Metaponto. Era di certo il legno più duraturo fra quelli destinati alle sculture, anche se forse – mette le mani avanti lo storico – proveniva da viti selvatiche.
Ma sono forse le cosiddette tavole di Eraclea (terzo secolo a.C.) la prova più eloquente dell’importanza del vino a quell’epoca. Vi si legge chiaramente che un vigneto costava sei volte più di un campo di grano. In questo scenario non è difficile immaginare – a mano a mano che la presenza greca si consolida – quanto fossero sempre più intensi gli scambi di costumi e di civiltà tra gli immigrati e le popolazioni locali, favoriti anche dai frequenti matrimoni.
La storia del Cirò e il contributo dei greci
I coloni greci portano dalla madrepatria due novità: la vite coltivata ad alberello – vale a dire a un’altezza non superiore ai 60/70 centimetri – per cui le foglie proteggono i grappoli dal sole eccessivo e nel contempo raffreddano il terreno sottostante; e il principio che l’uva non debba mai convivere con altre colture. Così un antico proverbio calabrese recita ancora oggi: “U pani e o vinu è malu vicinu!” Cioè i cereali sono cattivi vicini della vite.
È evidente che non siamo al vino d’oggi. Quello dell’antichità era molto diverso. Allungato per almeno il 50% con acqua, allo scopo di evitare stati di ebbrezza, poneva mercanti e produttori di fronte al difficile problema della sua conservazione. Ancora una volta è Plinio a ricordare le anfore trattate con pece calabrese, la più rinomata d’Italia, capace d’isolare il vino dall’aria e dalla conseguente ossidazione, assicurando così l’integrità del prodotto. Per cui i vini calabresi godevano di una buona longevità.
Oltre alla pece – che conferiva un gusto quanto mai preciso – c’era poi un secondo metodo di conservazione, che sopravviverà fino a tempi abbastanza recenti: l’aggiunta di mosto cotto, sia per addolcire il vino, sia per garantirgli una certa durata, comunque non superiore a un anno.
Così, dai Greci ai Romani, la Calabria vive più che mai all’insegna del vino. Un’ulteriore conferma viene dal ritrovamento di numerosi attrezzi, come i “torcularia” delle ville romane, e dalle forme di versamento dei tributi da parte delle popolazioni locali. Il pagamento poteva infatti avvenire in legname, carne o vino. E doveva trattarsi di grandi quantità di merce, se i Romani sentirono il bisogno di costruire una fitta rete stradale. Prima la Via Popilia (128 a.C.) - strada consolare che collegava Reggio Calabria a Capua – e poi altri due tracciati, uno da Vibo Valentia a Salerno, l’altro sulla Costa Ionica. Basti pensare all’importanza assunta dai numerosi porti della regione (Vibo, Reggio, Locri, Crotone), nei quali transitava il grosso delle derrate, ma soprattutto il vino.
Eppure, lascia perplessi scoprire che la punta massima di espansione della viticoltura in Calabria è da ricondurre solo alla metà del Seicento, quando la produzione poteva contare su mille ettari. Poi, a fine Ottocento, gli attacchi della fillossera hanno annullato ogni precedente primato, anche per il progressivo abbandono delle campagne, specie di quelle vitate.
E ancora due guerre disastrose, nell’arco del secolo scorso, hanno fatto il resto. Così la ripresa è stata quanto mai lenta e graduale, e non può dirsi del tutto compiuta. Perché non va trascurato che il livello qualitativo dei vini di Calabria presenta ancora qualche pecca, che non è estranea alla grossa produzione venduta sfusa. E questo a dispetto delle straordinarie potenzialità, che sono proprie del Cirò e del territorio.
Il Cirò e le poche cantine di respiro nazionale
Le grosse aziende non sono più di una dozzina, ma solo la metà arriva con i propri vini sul mercato nazionale e all’estero. È una limitazione che - fatto salvo il Cirò - tocca anche le altre Doc, alcune delle quali stentano addirittura a coprire lo stesso fabbisogno regionale, come nel caso del rarissimo Sant’Anna Isola di Capo Rizzuto. Rimuovere l’immagine di un Cirò “duro, sgarbato, che dava alla testa per la forte gradazione”, non è stato facile. Ma alla fine il risultato ha ripagato largamente ogni sforzo.
Oggi il vino è presente presso la più qualificata ristorazione, e la sua Riserva sopporta anche ricarichi notevoli. L’obiettivo, però, è ancora quello di ridurre la produzione, selezionando al massimo i migliori cru per esaltarne le doti attraverso più rigorosi processi di affinamento. I ritardi su questo fronte sono da ricondurre a quell’individualismo esasperato (purtroppo abbastanza diffuso tra la gente del Sud) che impedisce di coordinare le tante voci in un unico coro. “E la politica del Consorzio punta proprio al superamento di queste barriere”, sottolinea il Presidente Librandi.
Anche la ricerca dei vitigni autoctoni, e la loro riproposta attraverso processi di sapiente vinificazione, avviene in forme isolate e discontinue. Sicché l’eco rimane estraneo ai grandi canali d’informazione. In pratica, al rilancio del “Pianeta Calabria” dal punto di vista turistico non ha fatto sempre riscontro quello dei suoi vini. Auspichiamo che il Cinquantenario dia luogo a migliori risultati.
Così se i vacanzieri del Nord - che affollano le coste del Tirreno e dello Ionio, rapiti dall’ambiente e dai miti dell’antica Grecia - hanno modo di apprezzare il Cirò o il Greco, avranno poi difficoltà a trovarli, tornati a casa. Per cui, anche questa indiretta promozione finirà per non avere esito.
L’areale del Cirò
La Calabria è la regione d’Italia dove il mare e l’alta montagna sono più vicini. A osservarne l’andamento è una penisola nella penisola, fra Tirreno e Ionio, dove non mancano le diversità. Rosarno è più a sud della Sardegna, delle Baleari e di Corfù. E l’Aspromonte non è un massiccio “aspro” e inospitale, ma si sviluppa in forme dolci, quasi a cupola, dove a circa duemila metri si avverte ancora l’aria di due mari. D’altra parte aspros in greco vuol dire bianco.
Per il Cirò Rosso, il vitigno principe è il Gaglioppo, in genere utilizzato in purezza, anche se il Disciplinare prevede addirittura la presenza di vitigni internazionali per non oltre il 10%. Il distinguo fra il Melissa e il Cirò è legato ai diversi criteri di vinificazione adottati dai produttori, fra i quali alcuni di antica e consolidata tradizione. Per entrambi i vini, infatti, la base per il Rosso è sempre il Gaglioppo, acino medio, buccia nera e spessa, polpa succosa. Piuttosto resistente alla siccità e abbastanza longevo, se vinificato bene. Con altri sinonimi è presente anche nelle Marche, in Abruzzo e in Sicilia.
I vitigni a bacca rossa costituiscono in Calabria i 3/4 della produzione, con sistemi di allevamento che vanno dall’alberello basso al cordone speronato e alla controspalliera. Per il Bianco, l’uva è invece quella del Greco. Anch’esso trattato quasi sempre in purezza.
Il territorio è quanto mai vasto, e benché produca vini di tutto rispetto sono destinati più all’estero che ai ristoranti del Centro e Nord Italia. Un fenomeno dovuto all’incerta politica di promozione, che ha trascurato di puntare sul ricco patrimonio di vitigni autoctoni. Se ne contano ben 159, quanti ne risultano nel vigneto sperimentale creato proprio dalla famiglia Librandi. Una straordinaria miniera che non sarà mai abbastanza sfruttata.
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