I vini naturali del Lazio
di Elio Cecchin e Alessandro Favaro
Avvicinarsi al mondo dei vini naturali non significa certo addentrarsi in un'area inesplorata. Sono numerosi e sparsi in tutta la Penisola eventi e fiere, i consorzi e le associazioni spontanee come VinNatur, Vignaioli Artigiani Naturali e ViniVeri, tutte realtà dedicate a questa sempre più diffusa tendenza vitivinicola. Numerosi sono stati anche i tentativi di formulare un disciplinare che definisca un confine tra vino naturale e non: è difficile stabilire con chiarezza cosa sia il vino naturale, ma questo mondo è vivo e sta continuando a crescere. Le diversità, i regolamenti e le filosofie, nonché le certificazioni fra i diversi metodi produttivi, fra il biologico, il naturale e il biodinamico, sfumano in una tendenza comune al ripristino degli equilibri naturali dell’agroecosistema e della naturale fertilità del suolo fino al promuovere la biodiversità dell’ambiente in cui il produttore opera.
Se è difficile stabilire con chiarezza cosa sia un vino naturale, possiamo sicuramente affermare che è il prodotto unico e irripetibile di un'annata, un'annata che il vignaiolo ha provato a governare facendo tesoro della sua esperienza, delle sue prove, dei suoi errori. Dovremmo dunque avvicinarci ai vini naturali con la curiosità per un mondo in continua evoluzione; berli non con l'urgenza di riconoscere, ma con la voglia di scoprire.
L'agricoltuca biodinamica del Lazio
Carlo Noro, guru dell’agricoltura biodinamica laziale a Labico nei Castelli Romani, considera il vino un prodotto etico, espressione di una resistenza giusta contro lo spettro della progressiva desertificazione causata dalla chimica.
Contro i detrattori e al di là di possibili orizzonti postatomici, il suo pensiero resistente certifica un impegno nel mondo vitivinicolo, un impegno che si declina nel settore con varie sfumature d’intensità e a parità di una visione organolettica comune, di alto livello e comparabile in molti casi ai successi del settore più tradizionale, un’attualità confermata dalla nascita di sempre più numerose aziende, di nuovi spazi di ricerca e d’innovazione per un futuro modello agricolo di riferimento, per migliorare e conservare il terreno produttivo di cui disponiamo. Criticare la perdita di territorio, significa preservarlo secondo una saggezza originaria, nulla di visionario o di pindarico, ma di artigianale sì, con pratiche a volte anche campanilistiche, che tendono a rappresentare un driver di consumo alternativo sulla base di una ricerca e di una visione lucida e salutare. La curiosità verso il nuovo, senza nostalgie o recuperi ‘neorurali’, senza artifici o misticismi, muove distinte narrazioni che possono solo far bene e rendere più dinamico e appetibile il settore agli occhi del mondo.
La via naturale dei vini del Lazio
Nel Lazio, in particolare, il fenomeno dei vini naturali è esploso proprio negli ultimissimi anni, portando una ventata di novità dalla Tuscia viterbese alla Ciociaria e la valle del Comino, dai Castelli Romani a Cori e al litorale pontino, e in molti casi, regalandoci ottimi vini.
Una novità che aiuta a scoprire eccellenze, sepolte tra colline, montagne e immensi boschi. Una novità che può ribaltare l’opinione comune secondo la quale la presenza della Città Eterna sia croce e delizia di un’espressione enologica libera, sia un magnete di consumo ma anche un ingombro e la causa di un’ingiustificata ed eccessiva attenzione ai vini degli ‘altri’ a scapito del proprio patrimonio vitivinicolo di grandissimo valore. Il potenziale qualitativo dei vini laziali infatti è dato dai vitigni autoctoni, in buona parte a bacca bianca, quali la Malvasia Puntinata, il Trebbiano in varietà diverse, il Grechetto e ancora il Bellone, il Bombino, il Moscato di Terracina, il Pampanaro, il Capolongo, il Maturano bianco e in parte il Pecorino. Fra i vitigni a bacca rossa di assoluta eccellenza è il Cesanese nelle sue principali varietà del Piglio, di Olevano e di Affile, ma anche il Nero Buono di Cori, l’Aleatico e il Grechetto Rosso di Gradoli, il Lecinaro e il Maturano nero di Atina e in parte il Sangiovese e il Ciliegiolo.
I vini naturali del nord del Lazio
Ma non sono solo gli autoctoni ad esprimere grandi prodotti sostenibili. E’ il caso dell’azienda San Giovenale, nel viterbese, pensata e costruita in quella terra etrusca che ha dato i natali ai vini laziali e in particolare nel paese di Blera, fra i monti Cimini e i monti Sabatini. Il progetto di Emanuele Pangrazi, azienda biologica certificata e sostenibile nella sua architettura e dal punto di vista energetico, si sviluppa tra valli e gole di tufo, tra alberi di mandorlo, boschi e il versante del mar Tirreno che da est inebria il colle argilloso ricco di scheletri, a 400 metri s.l.m., esponendolo ad un costante e piacevole vento marino. L’intuizione di Pangrazi e Marco Casolanetti, suo collaboratore e amico, è stata di trovare un’affinità elettiva con il terroir e il microclima della valle del Rodano nel sud della Francia, zona caratterizzata da ventilazione, povera di piogge e ricca di escursioni termiche, dal giorno alla notte, popolata dai suoi vitigni tipici, il Syrah, la Grenache, il Carignan. Vitigni che in Italia, non a caso, sembrerebbero avere un’origine mediterranea, iberica o francese appunto, come il Cannonau in Sardegna, che grazie alle rituali transumanze i pastori avrebbero portato nel centro Italia in diversi biotipi di Grenache. Da qui l’intuizione di recuperarne l’esempio vinificando l’Habemus Etichetta Bianca, espresso nell’assemblaggio rodaniano delle sopracitate tre uve coltivate ad alberello (l’Etichetta Rossa invece è un Cabernet Franc in purezza). Da questa relazione filtrata con il mondo vitivinicolo francese nasce un vino dalla grande vitalità, reso strabiliante e avvolgente all’olfatto, ricco di sentori di piccoli frutti rossi sciroppati, profumi vicini alla china e piacevolmente iodato al gusto, quasi a sentirne il mare nella sua salinità, succoso e consistenza come l’uva matura, ma fresco e a dir poco elegante e morbido nei tannini, con i suoi 20 mesi d’invecchiamento in barrique nuove e i 6 in bottiglia. Nel 2018, non a caso, all’Etichetta Bianca 2015 sono stati assegnati i 5 Grappoli di Bibenda.
Restando nella parte nord del Lazio, e da quel magnifico scenario che le vigne attorno al Lago di Bolsena ci offrono, non possiamo che proseguire con Andrea Occhipinti. Un giovane vignaiolo la cui imponenza fisica lascia presto spazio a modi affabili; uno che parla poco, e che quando lo fa trasmette una serena fermezza. E la passione per la sua terra vulcanica e le sue vigne, dove cresce uve Aleatico, Greghetto Rosso e Grechetto, secondo invece quel principio naturale ma non per forza esclusivo, di dare espressione ai vitigni autoctoni. Dall’Aleatico nasce Alea Viva, un vino rosso che matura in cemento e sprigiona fini e piacevoli aromi fruttati. Se in Alea Viva scorre una leggiadria femminile, il Rosso Arcaico ha certamente l'anima di un maschio: si tratta di un blend di uve Aleatico e Greghetto Rosso, un vino più austero, che in parte matura in anfora. Dalla parte dei bianchi ci teniamo a menzionare il Fremito, un Grechetto macerato sulle bucce, un vino da bere quasi a temperatura ambiente, ricco al naso e persistente in bocca.
I vini naturali nel sud del Lazio
Scendendo un po' più a sud, a qualche chilometro a est di Viterbo troviamo la cittadina di Vitorchiano; e qui, un monastero di suore trappiste. Sì, suore trappiste. Suore che producono degli ottimi vini naturali, oltre a marmellate, confetture e olio d'oliva. I vini non possono che avere nomi latini: Coenobium, nome del vino bianco ottenuto da uve Trebbiano, Malvasia, Verdicchio e (a volte) Grechetto, si rifà a De vita coenobitica, seu communi (La vita cenobitica o comune), opera del padre cistercense Baldovino di Ford. A partire dallo stesso uvaggio, le suore trappiste fanno anche un vino più scuro e complesso, il Coenobium Ruscum, frutto di una fermentazione del mosto a contatto con le bucce. Abbiamo da poco scoperto anche un vino fresco e piacevole da uve rosse locali, il Benedic.
Spostandoci nella parte più a sud-est infine, troviamo il mondo del Cesanese, il vitigno autoctono a bacca rossa più rappresentativo del Lazio è coltivato principalmente nelle province di Roma e Frosinone, nelle sue tre varietà più pregiate e nelle corrispettive aree tipiche: le Doc di Affile e Olevano Romano e nella Docg del Piglio, fra suoli vulcanici e calcarei, fra argille e tufi, ad altitudini diverse comprese tra i 200 e i 600 metri slm. La zona di Olevano in particolare, ridente borgo rurale e medievale, è la più produttiva storicamente: offre numerose aziende naturali, sia biologiche che biodinamiche, innovative nel garantire e nel reinterpretare la tradizione soprattutto nei metodi in vigna e in cantina.
Fra queste, spunta la personalità del quarantenne genuino Damiano Ciolli, nato da una famiglia di viticoltori da due generazioni, con i suoi 6 ettari vitati a 450 metri s.l.m., coerente con la filosofia del territorio e del Cesanese. Nel 2000 l’incontro con il bassanese Roberto Cipresso fu decisivo: essendo impegnato in zona per il progetto Wine Circus, rimase estasiato dalle vecchie vigne di proprietà dei Ciolli e fu allora che Damiano decise di dare una svolta alle consuetudini famigliari, iniziando a produrre il Cirsium da un vecchio cru degli anni Cinquanta. In azienda domina una filosofia consapevole e vicina al vitigno per interpretazione grazie a due uniche espressioni, il Silene e il Cirsium appunto, ambedue vinificate da uve della varietà di Affile coltivate a guyot, a grappoli distanti e ed arieggiati, da un suolo vulcanico concimato organicamente e inerbato tra i filari, zappato e trinciato con sovescio ogni 3 anni. Un vino che possiamo definire ancora una volta ‘naturale’ nella sua accezione attenta ai cicli, alle pratiche in cantina e alle rese basse. Le vigne vecchie pensano al resto, conferendo garanzia e grande equilibrio al prodotto finale. I vini di Ciolli prediligono la bevibilità per freschezza e tannicità morbidamente contenuta, ma senza venir meno alla struttura e al carattere tipico del Cesanese, nonché all’eleganza e ad una singolare finezza. L’uso del cemento per il Silene, il vino d’entrata il cui nome è d’ispirazione floreale, è esclusivo per circa un anno, in attesa dei successivi 6 mesi in bottiglia, mentre per il Cirsium, ispirato nel nome al cardo campestre, è l’acciaio a preservare le aromaticità tipiche in attesa dei successivi 18 mesi in barrique, durante i quali vengono svolti regolari bâtonnage, e degli almeno due anni previsti in bottiglia. Vini, in particolare quest’ultimo, sicuramente intensi e complessi, merito di una prolungata maturazione dell’uva in pianta, al repentino abbassamento termico notturno e alla forte escursione termica giornaliera di cui può godere nella sua fase finale prima della raccolta. Il sottobosco umido, il ribes e i mirtilli dominano assieme alle spezie scure, ad un vago ricordo di cioccolato amaro e ad un fondo balsamico che affiora nelle sue migliori bottiglie, soprattutto quando i tannini vengono dominati da pazienti affinamenti e da annate che permettano freschezza e maturazioni complete dell’acino in tutte le sue componenti.
Abbiamo scelto di descrivere queste quattro realtà a mero titolo esemplare e di sintesi ai fini dell’articolo, senza naturalmente nulla togliere ad altri importanti produttori regionali testimoni dell’attualità dei vini naturali. Citiamo su tutti ancora nel Cesanese l’azienda biodinamica Riccardi Reale, tra Olevano e Bellegra, la biologica e biodinamica Palazzo Tronconi con gli autoctoni della Valle del Liri in Ciociaria, oppure Marco Carpineti, viticoltore biologico a Cori, espressione del Nero Buono e del Bellone metodo classico, o ancora Donato Giangirolami con una tenuta estesa tra la stessa Cori, i Castelli Romani e l’Agro Pontino.
di Elio Cecchin e Alessandro Favaro
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