Storia e caratteristiche del pomodoro San Marzano
di Nino D'Antonio
La cucina del Sud - e direi di buona parte del mondo latinoamericano, (al quale vanno aggiunti tutti quei Paesi dove è cospicua la presenza di nostri emigrati) - vive ormai da oltre tre secoli all'insegna del pomodoro. Portato nella Spagna d'Isabella di Castiglia, dopo la scoperta dell'America, insieme alle patate, ai peperoni, alle melanzane, il pomodoro (quello piccolo, formato ciliegina, che oggi definiamo “pachino” o “corbarino”) fu sottoposto, come ogni altro alimento proveniente dalla spedizione di Colombo, a varie indagini per stabilire che non fosse nocivo.
Il pianeta pomodoro vive di varie specie (non dimentichiamo quelle destinate alle gustose insalate), ed ha la sua area privilegiata in tutto il Sud, isole comprese. In particolare in quelle terre della Campania Felix, fra le province di Napoli e di Salerno, dove viene coltivato il suo più celebrato esemplare, il pomodoro San Marzano (dal nome dell’omonimo comune).
I risultati furono positivi per tutti i prodotti, tranne che per il pomodoro. Conteneva solanina, che, secondo la medicina del tempo (siamo ai primi del Cinquecento) era un elemento tossico. Per cui il pomodoro fu coltivato come pianta da salotto, e veniva spesso offerto alle signore in sostituzione dei fiori, sotto il nome di "pommes d'amour".
Così, per circa due secoli, questo frutto non arrivò sulle nostre mense. Poi, per quei canali che è sempre difficile ricostruire, cominciò a circolare la voce che la Spagna, e quindi l'intero vicereame da Napoli a Palermo - negli anni in cui erano imperanti il rigore religioso e il tribunale dell’Inquisizione - avesse vietato il consumo del pomodoro perché ritenuto un afrodisiaco. Fu sufficiente una tale diceria perché trionfasse sulle nostre mense, sia come ingrediente primario per i sughi, sia come prodotto crudo. E da allora, addio a qualsiasi presunto sospetto di tossicità.
Pomodoro San Marzano: il re dei pelati
Ma come nasce questo pomodoro per antonomasia? Il ciclo è lungo e vive di vari passaggi. Il Consorzio per la sua tutela affida ad un gruppo di aziende vivaistiche i semi destinati a dar vita alle piante, le quali vengono poi messe a dimora e allevate da una decina di cooperative agricole. La funzione delle cooperative serve a soddisfare due necessità: quella di offrire ai conservieri un sicuro referente, e quella di garantire servizi e strutture per avviare il prodotto al ciclo di lavorazione.
Trattandosi del pomodoro-principe della produzione campana, le cooperative sono sottoposte al controllo dell'Ispettorato Agrario. Esiste poi una seconda e più rigorosa verifica sulle aziende conserviere. E questo avviene attraverso il riscontro delle bolle di accompagnamento, le quali – emesse dalle Cooperative - devono indicare anche il nome dei soci che hanno fornito il San Marzano. Un’indicazione, questa, utile soprattutto ad accertare il rapporto tra piante affidate e resa.
Ce n'è quanto basta per valutare i criteri che garantiscono questo pomodoro. Per il quale inizia una seconda vita, all'interno delle aziende conserviere. Il pomodoro San Marzano deve, infatti, la sua notorietà nel mondo proprio alle industrie che ne perpetuano le straordinarie qualità. E qui il discorso si fa più sottile. Perché ogni conserviere – pur nel rispetto della normativa - ha le sue regole, i suoi principi e soprattutto un suo codice d'onore, a tutela di quella qualità che sottoscrive col proprio nome.
Nel 1999 il pomodoro San Marzano diventa DOP
Ai confini delle province di Napoli e di Salerno, in un'area ad alta vocazione agricola, c’è il grande polo delle industrie conserviere, dove vengono lavorati trentamila quintali annui di pomodoro San Marzano, che dal '99 ha ottenuto il riconoscimento della Dop. L’obiettivo principe è che il consumatore viene prima di tutto. Per cui il prodotto deve arrivare a tavola genuino e integro, e al giusto prezzo. Di qui una precisa strategia, portata avanti senza cedimenti, e spesso ancorata a una manualità di tipo artigianale; che significa poi una cura paziente e scrupolosa in ogni momento e in ogni passaggio della lavorazione.
Il Disciplinare prevede una resa massima pari a un chilo di prodotto finito per ogni chilo e duecento di fresco, cioè uno scarto di soli duecento grammi ogni chilo. Un risultato che si raggiunge grazie a un’attenta selezione a mano della materia prima, e ad un trasporto in cassette per un peso mai superiore ai venticinque chilogrammi. Il che comporta di sicuro costi più elevati per il maggior numero di viaggi, ma garantisce anche l'integrità del prodotto che si sottrae allo schiacciamento nei grossi contenitori. Un prodotto prezioso, se si considera che alle aziende conserviere il pomodoro San Marzano costa cinque volte il prezzo di un qualsiasi pomodoro.
Anche la lavorazione richiede particolare cura e tempi lunghi. Il San Marzano viene prima sottoposto ad un accurato lavaggio per eliminare ogni impurità, quindi a una prima cernita per escludere i pezzi non del tutto sani. I pomodori passano poi per la “scottatrice”, cioè calati in acqua bollente per circa venti-quaranta secondi, a una temperatura che varia in rapporto al loro diverso grado di maturazione.
A questo punto la buccia, ammorbidita dal calore, viene incisa in senso verticale dalla “pelatrice” e rapidamente eliminata. Ma non è finita. La successiva fase di controllo vede i pomodori disposti su un lungo telo, per un'ultima verifica. Un lavoro al quale sono addette solo donne, mano veloce e occhio scaltrito, perché nessuna alterazione sfugga.
Non rimane ora che la confezione del prodotto, che i piccoli produttori si vantano ancora di eseguire a mano, per evitare che una pressione di tipo meccanico schiacci il pomodoro. La linea più pregiata è senza dubbio quella in vetro, la quale consente di constatare direttamente sia la qualità del prodotto che la presenza del basilico, un elemento non sempre utilizzato dalle varie aziende.
Pomodoro San Marzano: una solonacea simbolo dell'Italia
Siamo i primi al mondo per l’export del pomodoro “conservato”, e il secondo - dopo gli Stati Uniti, pensate – per produzione. Due record assoluti che sanciscono un legame antico e indissolubile con questa solonacea. Eppure, a dispetto di un così forte radicamento, non è mancata in passato qualche fiera opposizione al pomodoro, visto quale simbolo di italianità. Valga per tutti il caso di Trieste, che dopo oltre cinque secoli di dominio austriaco (con qualche rimpianto), passa all’Italia con la vittoria della Grande guerra. Così i nostalgici al rifiuto di fanfare e bandiere aggiungono anche quello per l’invasione del sugo rosso.
Saba, triestino, avrà invece verso il pomodoro un’istintiva propensione. Specie come condimento per la pasta. Lo scopre ospite di D’Annunzio alla Capponcina sui colli di Firenze, e ne è entusiasta. Ma quale pomodoro avrà gustato il poeta? Probabile, quello pelato, appena cotto per qualche minuto in olio e aglio. Anche se la scelta è abbastanza ampia, dalla passata al concentrato. Tutte tipologie che partono dall’attenta cernita del prodotto, fino alla fase di triturazione e setacciatura. Quest’ultima allo scopo di fare evaporare l’acqua, attraverso una cottura a bassa pressione. La sola che consente di salvaguardare le proprietà organolettiche e nutritive del pomodoro.
Il “concentrato”, invece (per il quale sono previste le versioni doppio e triplo), richiede una lunga cottura fino all’addensarsi del prodotto. Fin qui, a grandi linee, il lavoro delle aziende conserviere.
Ma la confidenza col pomodoro - protagonista primario sulla pizza e gli spaghetti - registra da sempre una ristretta produzione nell’ambito di molte famiglie del Sud. In special modo di quelle che vivono in territori ancora fedeli a un patrimonio di tradizioni. Qui il rito di “fare i pomodori” non è scomparso, specie quello dei pelati e della passata. Certo, le attrezzature sono quelle domestiche, dalla grossa caldaia al passaverdure, ma i risultati non hanno confronti.
La varietà delle conserve di pomodoro (e penso a quella a base di sola polpa) non si esaurisce di certo in queste tipologie. Che tuttavia vantano una sicura identità e quel requisito di eccellenza che ne fa, a pieno titolo, un simbolo del nostro Paese.
Articolo di Nino D'Antonio
Tratto da l'Enologo – n°9 2016 – Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
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