È la pasta di Gragnano la prima IGP d’Europa
Arrivavano alla spicciolata, tirandosi dietro uno strano bagaglio, più da venditore ambulante che da viaggiatore. E si collocavano a una certa distanza fra loro. Ognuno a caccia di uno scorcio fra i salti d’acqua del torrente, le case basse a tinte vivaci, la massa cupa dei Monti Lattari. Un’immagine da cogliere nella sua freschezza e trasferire con mano rapida sulla tela. E allora fuori il cavalletto, il seggiolino pieghevole e quella scatola che traboccava di pennelli e colori.
Insospettabile questo legame di Gragnano con la grande pittura della Scuola di Posillipo. O meglio, di quella ristretta pattuglia che arrivava fin qui nelle limpide giornate di primavera. Siamo negli anni Trenta di quel secolo romantico che fu l’Ottocento.
E a Gragnano le strade erano invase da quella geometria di canne, dove la pasta si asciugava lentamente al sole. Ma chi erano questi pittori? Pitloo, Duclère, Giacinto Gigante, a citare i 52 più assidui. Nomi che allora dicevano poco, anche se avranno tutti un posto d’onore nei maggiori musei d’Europa. Riconosciuti maestri di quel paesaggio fra emozione e fantasia, ma soprattutto lontano da ogni accademia.
La mattinata trascorsa a dipingere si concludeva spesso in qualche vecchia osteria del paese, dove rigatoni, ziti e paccheri venivano celebrati con il classico ragù, mentre vermicelli e spaghetti erano conditi più semplicemente con i pomodorini del Vesuvio. In un caso e nell’altro accompagnati da quel vino frizzante e festoso che è il Rosso di Gragnano.
Poi, il monopolio della pasta ha finito per oscurare ogni altro richiamo. Anche quello di un paesaggio fra i più suggestivi, a mezza strada fra mari e monti, con quella Valle dei Mulini che la ricchezza dell’acqua ha destinato da sempre a patria della pasta.
Pasta di Gragnano: un'arte antica
La storia dei pastifici di Gragnano è lunga e frammentata, portata avanti da un pugno di famiglie, spesso imparentate tra loro, ma in aperta sfida per la migliore produzione. Perché, come avviene per il pane e la pizza, fare della buona pasta - che abbia nerbo e tenga bene la cottura - non è operazione da poco.
Una cosa sono infatti i grandi pastifici industriali, in grado di produrre quintali di buoni spaghetti nel volgere di qualche ora (si pensi alla Barilla che a Foggia e a Pedrignano, in provincia di Parma, vanta i più grandi stabilimenti del mondo) e ben altra cosa sono le fasi di lavorazione in un piccolo pastificio. A cominciare dalla miscela di grani duri, ovvero della semola, per la cui composizione ogni azienda ha i suoi segreti. Per intenderci, è un po’ come per il caffè, dove il gusto della tazzina è strettamente legato alla sapienza del composto e al rapporto fra le varie “voci”.
Così la semola usata dai vari pastifici è non solo il risultato di una composizione che varia da un’azienda all’altra, ma anche nell’ambito della medesima azienda, in relazione ai vari tipi di pasta. Perché una cosa è il composto per vermicelli e spaghetti e ben altra cosa quello per le forme chiuse, a riccio o a conchiglioni.
I segreti del successo della pasta di Gragnano
Ma cosa c’è dietro la notorietà e il successo della pasta di Gragnano? Almeno tre sicuri requisiti: l’esclusivo utilizzo di grano duro (semola); l’impiego delle trafile di bronzo; i tempi destinati al processo di essiccazione. Il primo è pressoché scontato, perché se si vuole una pasta che tenga bene la cottura, che rimanga cioè al dente, i grani duri sono insostituibili. Quelli teneri, infatti, vengono usati in prevalenza per le paste all’uovo e in pasticceria.
In quanto alle trafile di bronzo (e siamo nel cuore della pasta di Gragnano, insieme al metodo di essiccazione), va chiarito che la “trafilazione” è la fase in cui l’impasto di acqua e semola viene fatto passare, per compressione, attraverso i fori praticati su un disco di bronzo (la trafila, appunto) per dare alla pasta la forma voluta. Esistono così tante trafile per quanti sono i tipi di pasta.
Quale sia la funzione che la trafila copre nel dare forma alla pasta, è presto detto. L’impasto passa con lentezza attraverso i fori, e in più la superficie della pasta rimane piuttosto rugosa. Il che la predispone ad accogliere e a trattenere meglio i vari sughi.
Nei pastifici industriali, la trafila è rivestita di plastica, allo scopo di ottenere un veloce scorrimento dell’impasto. La conseguenza è che la pasta viene fuori in pochi secondi perfettamente liscia, sulla quale correrà altrettanto veloce anche il condimento.
L’importanza dell'essiccazione
Ma l’elemento che più caratterizza la pasta di Gragnano è dato dal processo di essiccazione. Un tempo – e ancora fino agli anni tra le due guerre - era lungo le strade del paese che la pasta, sistemata su apposite canne, veniva posta ad asciugare. Uno spettacolo che non trovava riscontro altrove, e che suscitava l’interesse e la curiosità di fotografi e viaggiatori.
Poi, l’avvento dei forni ha superato la mitica stagione delle canne al sole. Anche qui, però, è bene intendersi. La grande industria può essiccare quintali di pasta in un’ora, alla temperatura media di cento gradi, servendosi di lunghi tunnel, che spesso superano i cinquanta metri. È un processo che per la sua rapidità porta fatalmente a sacrificare gran parte dei batteri presenti nella fase di fermentazione dell’impasto.
L’essiccazione di tipo artigianale, invece, propria dei pastifici di Gragnano, avviene in forni che non superano mai i cinquanta gradi e che richiedono non meno di altrettante ore, in rapporto ai vari tipi di pasta e al loro diverso spessore. Per cui si arriva anche a quattro giorni, se si tratta di varietà le cui forme tendono a chiudersi.
L’essicazione rimane oggi come allora la fase più delicata per ottenere la migliore pasta. Alle lunghe canne si è sostituita una ventilazione ad aria calda, effettuata in più riprese. Ad ognuna di queste fasi segue quella “dell’incarto”, che corrisponde alla sottile crosta che si forma sulla superficie della pasta. La parte più interna, invece, continua a essere impregnata di umidità che, per osmosi, viene trasmessa alla crosta, cioè al primo strato.
Inizia a questo punto un ciclo di ventilazione con aria calda, che ha luogo in celle statiche o in tunnel.
Il passaggio finale è dato dal raffreddatore, che porta la pasta a temperatura ambiente. È chiaro che si tratta di un processo lungo, con passaggi che richiedono un attento controllo. Per cui viene legittimo chiedersi su quale riscontro possa contare il consumatore.
La prova del nove - che si tratti di autentica pasta di Gragnano - la si può avere già in pentola. Se l’acqua di cottura è biancastra e viscosa, vuol dire che la pasta non solo ha perso molto amido (e quindi non risulta adeguatamente essiccata), ma presenta anche un basso indice di glutine. Insomma, è un prodotto di modesta qualità.
Tre requisiti si diceva: grano duro, trafile di bronzo e lenta essiccazione che in genere sfuggono al consumatore per la forza di persuasione della grande industria, e i suoi suggestivi messaggi. E invece fra le due paste c’è parecchia differenza.
Una notorietà senza confini
Nel 2003 è nato il Consorzio di tutela, costituito da sette aziende storiche, alle quali si sono aggiunti di recente altri cinque pastifici. La produzione si aggira complessivamente intorno ai novanta quintali al giorno, di cui l’80% destinato all’export in quarantadue nazioni. E questo significa che il potenziale di Gragnano è di circa tre milioni di tonnellate all’anno. Una quantità che a prima vista spaventa, ma che non interferisce con l’eccellenza del prodotto, ormai codificato da secoli di esperienza e dal contributo di alcuni fattori determinanti nella buona resa della pasta.
È il caso dell’acqua che viene giù dalle sorgenti del Monte Faito. Un’acqua pura, priva di cloro e dal particolare clima che caratterizza il territorio: due elementi che non hanno riscontro altrove. Così non sorprende che la pasta abbia improntato di sé la storia di Gragnano, al punto da essere presente anche nello stemma comunale, dove - a metà scudo - campeggia una mano che impugna cinque spighe di grano con relativi steli.
Dal 2013 la pasta di Gragnano può contare sulla prima Igp d’Europa, un riconoscimento non da poco se si pensa che sono oltre duecentocinquanta le eccellenze italiane. Ma storicamente il primato spetta a Ferdinando II di Borbone, che nel 1845 conferì a Gragnano il titolo di “Città dei maccheroni” e il privilegio di fornire la corte.
Oggi i locali pastifici hanno messo insieme, nel corso di quasi cinque secoli, una tale varietà di tipologie da superare i cento formati. In testa sono le pasta corte, paccheri, calamari, pennette. Seguono le lunghe, fusilli, bucatini, linguine. E infine quelle per la cottura in forno, cannelloni, lumaconi, conchiglie.
Gragnano, intanto, non espone più al sole le sue canne cariche di pasta. Né accoglie come un tempo i pittori della Scuola di Posillipo alla ricerca di paesaggi incontaminati. Ma in cambio, gode di una notorietà senza confini. Il suo nome, prima d’identificarsi con la pasta, rimanda a un prodotto di sicura identità.
Un traguardo non da poco, raggiunto attraverso secoli di dura fatica, sorretti dall’orgoglio di voler accreditare Gragnano nel mondo.
Articolo tratto da l'Enologo – n°5 2016 – Mensile dell'Associazione Enologi Enotecnici Italiani
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